L’Antece degli Alburni, condottiero o divinità?

L’Antéce

A 1125 m di quota, sulla sommità di Costa Palomba, monti Alburni e Parco Nazionale del Cilento, un non comune monumento rupestre domina un ampio panorama a 360°, che spazia dall’entroterra al mare, sino all’isola di Capri nelle giornate più limpide. Si tratta dell’Antéce, secondo alcuni “l’Antico”, un altorilievo rupestre ricavato da un lastrone naturale, un aguzzo spunzone calcareo. La figura umana, a grandezza naturale, impugna con la destra una lancia, o un’insegna, alla quale è poggiato uno scudo rotondo a profilo leggermente spiovente dotato di umbone fusiforme; nell’altra mano impugna un oggetto allungato, eroso e lacunoso, che può fare ipotizzare la presenza di una folgore o di un fascio di folgori (PDF disponibile).

di Andrea ARCÀ, Oriana BOZZARELLI



 

L’Antece dei monti Alburni,

condottiero o divinità?

 

(16 dicembre 2020)

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Sant’Angelo a Fasanella, la sommità arrotondata di Costa Palomba (foto AA)

A 1125 m di quota, sulla sommità pianeggiante di Costa Palomba, monti Alburni e Parco Nazionale del Cilento, un non comune – unico a dir la verità – monumento rupestre domina un ampio panorama a 360°, che spazia dall’entroterra al mare, sino all’isola di Capri nelle giornate più limpide. Si tratta dell’Antéce (anche Antecce), secondo alcuni “l’Antico” in vernacolo cilentano[1], detto altresì ‘u Moccio (la figura), un altorilievo ricavato da un lastrone naturale, un aguzzo spunzone calcareo[2] verticale con i piani di scistosità ruotati in verticale, circondato da una serie di rocce analoghe, che emergono in corrispondenza della vetta, e che mostrano evidenti tracce di erosione; un ribassamento del suolo alla base mostra tracce di adattamento e/o di scavo. Il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni fa parte dal 1998 della lista UNESCO del patrimonio mondiale dell’umanità, unitamente ai siti archeologici di Paestum, Velia e alla Certosa di Padula; il sito sovrasta l’abitato di Sant’Angelo a Fasanella (SA), 3,5 km a valle, borgo ricco di emergenze culturali, l’Antéce appunto e la Grotta Santuario di San Michele Arcangelo, già sede di una comunità religiosa benedettina, entrambe parte del patrimonio mondiale.

La faggeta lungo il percorso per raggiungere la sommità di Costa Palomba (foto AA)

Lastroni calcarei presso la sommità di Costa Palomba, tra i quali l’altorilievo rupestre dell’Antéce (foto AA)

Raggiungere la sommità arrotondata di Costa Palomba non è difficile, lungo la strada che da Sant’Angelo a Fasanella conduce a Petina attraversando l’altopiano e superando i 1200 m di quota: dal  punto in cui è possibile lasciare l’automobile, circa 6 km dopo Sant’Angelo, si imbocca un facile e breve percorso, dapprima lungo una sterrata, che poi diventa un sentiero a gradoni e staccionata di legno attraverso un bel bosco di faggi, 30 minuti in tutto e 100 m di dislivello in salita, più ripida nella parte finale.

Costa Palomba, lastroni calcarei e degradazione meteorica (foto AA)

In corrispondenza della zona sommitale, quasi piana, il lastrone emerge a mo’ di stele, o di statua-stele, con la faccia lavorata esposta a sud-ovest, a profilo a mandorla, alto circa 2 m, forse in origine quasi rotondo se si considerano gli stacchi distruttivi praticati ai margini. La figura umana è scolpita ad altorilievo, tanto che l’intero manufatto assume quasi la natura di una statua, ed è alta circa 170 cm, quindi a grandezza naturale.

Costa Palomba, l’altorilievo rupestre dell’Antéce ricavato da un lastrone calcareo naturale (foto AA)

Impugna con la destra una lancia, o un’insegna, tenuta verticale e poggiata a terra, come nel rilievo di Bormio, o su di un rialzo non meglio leggibile, della quale non si può individuare la cuspide per le lacune da erosione e danneggiamento, alla quale, sempre a terra, è poggiato uno scudo rotondo a profilo leggermente spiovente e incurvato a partire dal diametro verticale di circa 50 cm, più probabilmente dotato di un umbone fusiforme del quale si è quasi persa la forma.

L’Antéce: dettaglio della lancia impugnata con la mano destra (foto AA)

Nell’altra mano impugna un oggetto allungato, eroso e lacunoso, del quale però si può riconoscere una terminazione distale ad arpione e una prossimale svasata, tanto da potere ipotizzare la presenza di una folgore o di un fascio di folgori, e da connotare pertanto l’altorilievo rupestre, secondo una possibile lettura, come un effigie di Iuppiter / Zeus, a seconda della cultura di riferimento, o per lo meno dotata degli attributi della divinità delle vette per elezione.

L’Antéce: dettaglio dell’oggetto impugnato con la sinistra (foto AA)

Zeus su di un’anfora panatenaica a figure rosse (480-470 a.C; Staatmuseum, Berlino)

Delle due mani si possono ancora leggere, a fatica, le tracce delle dita, che fanno presa, incurvate, sulle aste della lancia e dell’altro elemento impugnato; se le braccia sono orizzontali, gli avambracci, uno alzato e l’alto abbassato, formano con la linea delle spalle un profilo sinuoso. Il personaggio indossa una sorta di tunica rigida, che il labile riconoscimento di placche andrebbe a configurare come corazza, che arriva alle ginocchia, maniche che terminano sopra il gomito, e un elmo del quale si possono intravvedere, a fatica, orlo, paragnatidi e più sicuramente l’apice, tanto da poterlo definire, sempre con riserva, elmo a pileo, probabilmente a calotta di tipo Montefortino (V-I sec. a.C.); una leggera sagomatura della superficie danneggiata, subito a destra del capo, per chi guarda, mostra altresì tracce di un corno, elemento che contribuisce a confermare la cronologia più verosimile del rilievo rupestre, che gravita attorno al V-IV sec. a.C.[3].

L’Antéce, dettaglio dell’elmo e della testa (foto AA)

Tomba di Santa Maria Capua Vetere, località Cappella dei Lupi, nota come tomba Weege 12 (seconda metà IV sec. a.C.), rappresentazione di elmo calcidese sud-italico decorato da un’alta penna sommitale fissata in mezzo alle corna arcuate, indossato da un cavaliere che regge uno scudo ovale a umbone centrale (da BENASSAI 2001); nel riquadro in alto a destra il personaggio indossa un elmo tipo Montefortino C con corna, tomba del Cavaliere a Nola (seconda metà IV sec. a.C.)

L’intero monumento è stato danneggiato, probabilmente in più di un’occasione, da colpi di mazza su piedi, gambe sino alla tunica, cioè alle ginocchia, collo e testa, avambraccio destro della figura e margine destro del supporto; le parti rotte mostrano spigoli più vivi, e sono quindi meno erose rispetto alla superficie originaria, con patina altresì più chiara, diagnosticando la pertinenza storica dei danneggiamenti; la superficie originaria, per contro, esibisce tracce di bocciardatura a colpi a diametro centimetrico, le cui creste di separazione sono smussate dall’erosione. A metà della tunica si nota una cintura, debolmente rilevata, e dal fianco sinistro pende il fodero di una corta spada; le gambe sono parallele e leggermente divaricate. Una decina di metri a nord, su di un piano rialzato di un masso, è stata ricavata, forse allargando una cavità di erosione già esistente, una vasca ovale a fondo piatto e pareti subverticali, di circa 80×120 cm di diametro, con canaletto efferente di scolo, sulla cui eventuale relazione con il monumento rupestre poco si potrebbe dire, salvo che, nell’eventualità si riconoscesse l’effigie divina, sarebbe possibile avanzare un confronto con il Ròch dij Gieugh[4] sopra Usseglio (TO), dove l’iscrizione latina Iovi dimostra la valenza cerimoniale-offertoria del sito e del masso inciso, caratterizzato da un reticolo di profonde coppelle, vaschette e canaletti; in Caiazza 2020: 57 si ipotizza che tale vaschetta potesse essere destinata “a contenere le ceneri di un personaggio eminente, magari lo stesso effigiato su una roccia distante pochi metri”.

La vasca con canaletto efferente situata a pochi metri dall’Antéce (foto AA)

L’Antéce, dettaglio dei danneggiamenti in corrispondenza della gamba sinistra (foto AA)

Il monumento di Costa Palomba fu segnalato per la prima volta nel 1963, rivendicandone la scoperta nel corso della campagna di esplorazione speleologica “condotta anche con intendimenti paletnologici” organizzata dalla Commissione Grotte del CAI triestino (Stradi, Andreolotti 1963); nel corso di tale campagna fu anche effettuato un saggio di scavo “nella parte centrale del ripiano alla sinistra della scultura”, con materiale poi consegnato alla Soprintendenza Archeologica di Salerno; emerse uno strato superiore “con scarsa e rozza ceramica di tipo romano”, al di sotto del quale giaceva uno strato di 20-25 cm di terreno bruno nerastro ricco di ceramica dell’età del bronzo finale (…). Il livello sottostante a quello romano ha dato: a) abbondantissimi resti di rozza ceramica d’impasto prevalentemente cordonata o pizzicata, resti che dovevano fare parte di grossi e voluminosi recipienti; b) alcuni frammenti di ceramica con decorazione incisa (a spina di pesce, geometrica) e ad intaglio (triangolini su due file opposte), frammenti di larghe capeduncole svasate con leggera carena, due anse verticali a largo nastro più o meno cilindrico, prese rettangolari e a linguetta, bugnette (Ibid.: 85-86).

Costa Palomba, reperti ceramici dell’età del Bronzo provenienti da un saggio di scavo effettuato a Costa Palomba (da STRADI, ANDREOLOTTI 1967, figg. 3-4)

Gli autori proponevano l’attribuzione dei reperti ceramici “ad una fase finale dell’età del Bronzo, forse ad un periodo inoltrato, già orientato in senso protovillanoviano della cultura subappenninica”, ipotizzando altresì un attardamento culturale, riservando a più approfondite valutazioni la contestualità o meno della figura rupestre rispetto alle ceramiche del castelliere dell’età del Bronzo, escludendo quindi quelle romane. In Stradi, Andreolotti 1967 l’argomento viene ripreso, citando altresì la presenza di “scarse tracce di un rozzo muro ad intonaco di probabile età romana”; la descrizione dei reperti ceramici è più dettagliata, oltre che accompagnata da due tavole con disegni di 17 frammenti, tra i quali una capeduncola quasi intera. In Caiazza 2020: 47 è riportata la presenza presso l’area sommitale “di una miriade di minuti frammenti di ceramica da fuoco, anche ben depurata, di epoca ellenistica”, confermando così una lunga frequentazione antropica. Riguardo al monumento rupestre, sono varie le ipotesi avanzate, relate alla raffigurazione di un guerriero, di una divinità guerresca, di una scultura funeraria o di un defunto eroicizzato (Stradi, Andreolotti 1967: 167-171). In Piciocchi 1977 la situazione viene brevemente riesaminata, attribuendo più correttamente al Bronzo Medio e Recente i reperti ceramici emersi dagli scavi citati, e ipotizzando altresì la poco probabile contemporaneità del monumento rupestre che, per lo stile e per le armi che esibisce, va sicuramente datato alla ben più recente fase già citata, senza rapporti con il più antico abitato fortificato dell’età del Bronzo; nell’articolo viene altresì riportato il toponimo “tomba di Spartaco”, che però non ha relazione verificata con la località di Costa Palomba, ma deriva dalle numerose leggende relative alla sepoltura nel Cilento del noto condottiero – tra le quali una riferita alla grotta di San Michele Arcangelo a Sant’Angelo di Fasanella (Puca 2004: 29-31) – trucidato nel 71 a.C. alla fine della terza guerra servile, probabilmente nell’area della valle del Sele[5].

Costa Palomba, l’altorilievo rupestre dell’Antéce, ripresa laterale (foto AA)

Il monumento di Costa Palomba è oggi noto soprattutto in ambito escursionistico; manca però un’edizione monografica, e solo recentemente sono stati pubblicati contributi più approfonditi. Le attente disamine esposte in Caiazza 2016, 2020 e 2021, che si sono avvalse di un dettagliato esame autoptico e fotografico sotto le opportune condizioni di illuminazione radente, integrano il conosciuto con l’aggiunta di nuovi particolari iconici; per quanto riguarda il sito, l’autore dettaglia la presenza di un muro megalitico[6], tracciandone il percorso su foto aerea – si tratta della descrizione di quanto visibile in superficie – lungo circa 300 m, il quale, unitamente alle difese naturali a strapiombo sul versante nord, cinge un’area di circa un ettaro; per quanto riguarda l’appellativo, l’autore ipotizza derivi da un termine di orizzonte italico, *Antex, comparabile con il termine militare latino antecessor, avanguardia, guida, in senso figurato “l’antenato” e non certo “l’antico”; riconosce la presenza di una tomba a camera con lastroni, non più esistenti, della quale rimane la fossa lunga 2,50 m ai piedi del bassorilievo rupestre, alla quale l’effigie sarebbe correlata, escludendo pertanto la raffigurazione di una divinità o la presenza di un altare, e cita testimonianza di danneggiamenti recenti, compiuti da persone in cerca di tesori, che confermano l’impressione avuta da chi scrive, osservando la relativa freschezza delle scheggiature in corrispondenza delle gambe, più acute rispetto a quelle delle parti superiori; per quanto attiene ai particolari della figura, definisce la presenza di un apice a trottola dell’elmo, di un torques al collo, di un’ampia scollatura sul petto – chi scrive ritiene di possa delineare un καρδιοφύλαξ – di una piastra di protezione pettorale, unitamente a scanalature verticali, forse traccia di una protezione metallica o in cuoio, e quindi di una corazza, oltre che di una fibbia a losanga sotto al cinturone; Caiazza osserva come il fodero della spada sia posto sulla sinistra, per estrarre la spada con la destra, conformemente all’uso sannitico e non a quello romano; della spada, descritta come una daga, più corta del gladium romano, lo studioso riconosce il pomo dell’elsa e resti delle antenne; ipotizza altresì che l’oggetto impugnato nella sinistra, che non può essere una spada in quanto essa è raffigurata nel fodero, fosse un’insegna; l’autore conclude ipotizzando che il bassorilievo sia correlato alla sepoltura intra moenia di un re-condottiero lucano, della popolazione che poi scese alla pianura costiera sino ad occupare Posidonia-Paestum, propendendo per una fase più arcaica, fine VI o V sec. a.C., rispetto al IV sec. suggerito dai confronti con gli affreschi tombali di Nola e Santa Maria Capua Vetere. In Astone 2012: 12 si propone un collegamento con la lingua etrusca e con l’ornitomanzia, osservando che il vocabolo etrusco per “aquila”, volatile ancora oggi presente sui monti Alburni, è “Anθa”.

Costa Palomba, l’Antéce, la depressione alla base e i lastroni circostanti (foto AA)

A proposito dell’Antéce è più volte citato in rete un presunto collegamento con il dio Alburno, del quale il rilievo rupestre avrebbe potuto essere una rappresentazione, come luogo di culto dedicato a tale divinità, della quale, peraltro, si sa veramente poco; l’unica fonte è Tertulliano il quale, nell’Apologeticum (197 d.C.), riporta che Marco Emilio – Scauro, console nel 115 a.C. insieme a Quinto Cecilio Metello – tentò di introdurre al Roma il culto “del suo dio Alburno”[7], tentativo non andato a buon fine per l’eccezione del senato[8], che non aveva preventivamente approvato tale consacrazione; non vi è però alcun elemento nelle fonti antiche che permetta di collegare tale Alburnus con la catena montuosa cilentana. L’Alburno, come monte, è citato da Virgilio quando descrive gli armenti nelle selve – era evidentemente zona di allevamento bovino – infastiditi dai tafani (Verg. Geo. III, 146-153); la vetta del massiccio montuoso, l’attuale monte Alburno o Panormo, 1742 m slm, è situata circa 14 km a nord-ovest di Costa Palomba. Il possibile riconoscimento proposto in questa sede della presenza dell’attributo delle folgori, può contribuire a qualificare il bassorilievo come icona divina, monumento sommitale a sé stante o forse anche a corredo di una sepoltura regale, che in quanto posizionato proprio in cima all’acrocoro di Costa Palomba bene si addice alla divinità che proprio nella dominanza cacuminale vede la sua più conosciuta qualifica; è altresì palese quale potrebbe essere l’importanza, ai fini più generali dell’esegesi dell’iconica rupestre, e nello specifico delle figure di armati dell’età del Ferro, di un nuovo e qualificante caso di identificazione degli attributi divini di una figura rupestre.

Andrea Arcà
Cooperativa archeologica Le Orme dell’Uomo, Valcamonica

Oriana Bozzarelli
Università di Torino

[1] Che nella parlata locale è però “anticu”.

[2] Calcari e dolomie mesozoici, Alberti 1963.

[3]  Vd. le rappresentazioni di seconda metà del IV sec. a.C. di elmi cornuti, indossati dai cosiddetti guerrieri Sanniti, dalle tombe dipinte di Nola (con apice a pileo) e Santa Maria Capua Vetere.

[4] Il masso (Berta et al. 2016), un grosso “panettone” di paleofrana, è inciso sulla parte sommitale con un fitto reticolo di profonde coppelle, vaschette e canaletti, sovrapposti a pediformi della prima età del Ferro.

[5] Secondo Plutarco Spartaco, poco prima della sconfitta finale, si ritirò nei monti usualmente tradotti come di Petelia (“Σπαρτάκῳ δὲ … ἀναχωροῦντι πρὸς τὰ ὄρη τὰ Πετηλῖνα” – Plut. Crass. XI), una città ritenuta essere nel Bruzio, forse Strongoli o Petilia Policastro nell’odierna Calabria; il realtà Plutarco parla dei monti Petelini, di Petelia ma forse di Petina (SA), situata ai piedi del versante settentrionale del massiccio dell’Alburno, dalla parte opposta di Sant’Angelo a Fasanella, al quale è congiunta dalla strada Sant’Angelo-Petina che attraversa il massiccio e passa vicino a Costa Palomba; va però specificata la probabile connessione etimologica tra questa e altre Petina con abete, abetaia, abetina; sempre secondo Plutarco, Spartaco morì combattendo, circondato e sopraffatto dagli avversari, dopo che gli ultimi che gli stavano vicino avevano preso la fuga: τέλος δὲ φευγόντων τῶν περὶ αὐτόν, αὐτὸς ἑστὼς καὶ κυκλωθεὶς ὑπὸ πολλῶν, ἀμυνόμενος κατεκόπη (Ibid.). Anche Appiano d’Alessandria ambienta il capitolo finale della sconfitta nel Sannio: Spartaco, costretto a tentare una sortita nel territorio dei Sanniti (“βιαζομένου δ᾽ ἐς τὴν Σαυνίτιδα τοῦ Σπαρτάκου διαδραμεῖν”), fu ferito alla coscia da una lancia e si accasciò su di un ginocchio, difendendosi con lo scudo e opponendosi agli assalitori finché, non fu massacrato per la loro superiorità numerica; il suo corpo non fu mai trovato: “τιτρώσκεται ἐς τὸν μηρὸν ὁ Σπάρτακος δορατίῳ καὶ συγκάμψας τὸ γόνυ καὶ προβαλὼν τὴν ἀσπίδα πρὸς τοὺς ἐπιόντας ἀπεμάχετο, μέχρι καὶ αὐτὸς καὶ πολὺ πλῆθος ἀμφ᾽ αὐτὸν κυκλωθέντες ἔπεσον. ὅ τε λοιπὸς αὐτοῦ στρατὸς ἀκόσμως ἤδη κατεκόπτοντο κατὰ πλῆθος, ὡς φόνον γενέσθαι τῶν μὲν οὐδ᾽ εὐαρίθμητον, (…) καὶ τὸν Σπαρτάκου νέκυν οὐχ εὑρεθῆναι” (App., De Bell. Civ. I 119-120).

[6] Probabile cinta fortificata di stazzo o insediamento di transumanza della media età del Bronzo.

[7] L “Ut de origine aliquid retraetemus eiusmodi legum, vetus erat decretum, ne qui deus ab imperatore consecraretur nisi a senatu probatus. Scit M. Aemilius de deo suo Alburno – per dire una parola sull’origine di tali leggi, esisteva un vecchio decreto, che nessun dio fosse consacrato da un generale senza questo dio non avesse ottenuto l’approvazione del senato. Lo sa Marco Emilio riguardo al suo dio Alburno” (Tert. Apol. V 5.1).

[8] Con tale consacrazione era stata violata l’antica legge per la quale i Romani non potevano riconoscere divinità se non per deliberazione del Senato, come testimoniato da Cicerone, Tito Livio e Tertulliano.


 

Bibliografia

Astone F. 2012. Alle origini del toponimo Cilento: la fondazione di Poseidonia ed i Tirreni-Etruschi del golfo di Salerno. Riflessioni ed ipotesi, Annali storici di Principato Citra, a. X, n. 1, gennaio-giugno 2021, pp. 5-44.

Alberti A. 1963. Il massiccio calcareo dell’Alburno, Atti e Memorie della Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, II, 1962, pp. 17-29.

Benassai R. 2001. La tomba delle Bighe a Tarquinia. Immagine di un aristocratico tarquiniese di V sec. a.C., in Barbet A. (a cura di), La peinture funéraire antique, IVe siècle av. J-C-IVe siècle ap. J-C. Actes du VIIe colloque de l’Association internationale pour la peinture murale antique (6-10 octobre 1998, St-Romain-en-Gal), pp. 243-247, tavv. 49-50.

Berta D., Arcà A., Rubat Borel F. (a cura di) 2016. Roccia dei Giochi, Roccia di Giove. Un masso inciso tra preistoria ed età moderna a Usseglio, Usseglio.

Caiazza D. 2016. Alburnus, Studi sull’Antece e sulla topografia antica del Cilento, l’Antece di Costa Palomba, Annali storici del Cilento e del Vallo di Diano, periodico di cultura, storia e saggistica, XXV, a. XVII n. 1.2, nuova serie, pp. 65-91.

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Caiazza D. 2021. L’Antece. Un condottiero lucano scolpito su una vetta dell’Alburno, Territori della Cultura, rivista online, 43, pp. 18-25.

Piciocchi A. 1977. La grande scultura rupestre di Costa Palomba sul Monte Alburno (Salerno), Club Alpino Italiano, Sezione di Napoli, Notiziario Sezionale, a. XXXI, n. 5, pp. 51-53.

Puca G. 2004. Spartacus e il Cilento, tra storia, ipotesi e leggende, Capaccio.

Stradi F., Andreolotti S. 1963. Grande scultura rupestre e insediamento dell’Età dei Metalli sulla vetta di Costa Palomba – Monte Alburno (Comunicazione preliminare), Atti e Memorie della Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, II, 1962, pp. 85-89.

Stradi F., Andreolotti S. 1967. Stazioni all’aperto della civiltà appenninica e subappenninica nella zona meridionale del Monte Alburno (Salerno), Atti e Memorie Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, VI, 1996, pp. 161-172.



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