La densità e la varietà delle incisioni presenti sulle rocce, che per un lungo tratto della valle degradano verso l’alveo del fiume Oglio che dai ghiacciai dell’Adamello e dalle molte valli laterali convoglia le acque verso il lago d’Iseo, fanno della Valcamonica un caso esemplare per lo studio dei processi di creazione di un paesaggio. Proprio il carattere più evidente di gran parte del patrimonio figurativo rupestre, l’inamovibilità dai luoghi in cui esso è stato istoriato, solleva una questione che tocca in profondità la nozione di paesaggio.
by Giacomo CAMURI
Facies locorum
paesaggi e arte rupestre
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Giacomo CAMURI
Un’arte «del» paesaggio?
Nell’ottobre del 1979 la Valcamonica entrava a far parte, primo sito italiano, del Patrimonio Mondiale dell’Unesco1. Quattordicimila circa di storia documentati in una straordinaria costellazione di figure e di segni incisi su vaste aree della sua superficie. Espressione di un’attività artistico-rituale, che si è mantenuta pressoché immutata pur nei cambiamenti epocali incorsi tra le stagioni incerte dei primi gruppi di cacciatori e il pieno sviluppo di comunità stabili dedite all’agricoltura e alla produzione e al commercio di metalli, le incisioni restituiscono insieme ai calchi di esperienze vissute in determinati contesti sociali preziose testimonianze di storia del paesaggio.
La densità e la varietà delle incisioni presenti sulle rocce, che per un lungo tratto della valle degradano verso l’alveo del fiume Oglio che dai ghiacciai dell’Adamello e dalle molte valli laterali convoglia le acque verso il lago d’Iseo (fig. 1), fanno della Valcamonica un caso esemplare per lo studio dei processi di creazione di un paesaggio. Proprio il carattere più evidente di gran parte del patrimonio figurativo rupestre, l’inamovibilità dai luoghi in cui esso è stato istoriato, solleva una questione che tocca in profondità la nozione di paesaggio.
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1 Insieme ad altri 44 siti la Valcamonica viene inserita nella lista del Patrimonio Mondiale in occasione della III sessione del Comitato Unesco tenutasi al Cairo il 23 ottobre e tra il 24 e il 26 a Luxor
Già dalla compagine delle prime immagini che compaiono sulla collina di Luine in prossimità di Boario-Darfo sorge una domanda che va ben oltre l’ovvia disposizione spaziale delle incisioni. L’arte rupestre è un’arte «nel» paesaggio o un’arte «del» paesaggio? Un’arte che ha trovato nello spazio fisico di una materia levigata il supporto/contenitore per le proprie espressioni o un’arte che nell’apparente inerzia della materia ha generato in forza di se stessa o di altro spazi di senso, ha trasformato rocce in quadri narrativi, in dimore spirituali, in ambiti di vita sociale? Una domanda che facendosi varco tra la fitta tessitura di immagini martellinate sulla superficie levigata delle rocce e di taluni grandi massi (fig. 2) si interroga sul particolare connubio se non forse sulla consustanzialità di arte rupestre e paesaggio. Ma che cosa è «paesaggio»? Una feconda indicazione giunge a tal proposito dalla Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000, laddove all’art.1 si legge: “Il termine paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.”. Rilevante è l’accento posto sul ruolo della percezione, che qui appare nodale nelle dinamiche storiche che concorrono alla formazione di un carattere paesaggistico: una percezione, quale è quella dei popoli, sedimentata nel tempo, condivisa, comunitaria radicata nella trasmissione culturale di pratiche e di saperi. Soprattutto una percezione attiva che non registra mondi, fatti, oggetti in sé compiuti ma, in linea con le scoperte avviate dalla Gestaltpsychologie, ne organizza e ne orienta le modalità di apparizione. Una percezione che non può essere disgiunta dai processi di interazione dei fattori naturali e umani, perché ne è parte in causa, si potrebbe dire, sopratutto dove entrano in gioco in modo determinante i fattori umani, ne detiene la regia.
Come non cogliere allora nell’arte rupestre, che è espressione di intenzionali atti percettivi, il riverbero di un paesaggio in fieri? Un incredibile spaccato di sguardi affiora dalle forme e dai segni impressi nella pietra, dalle loro localizzazioni e disposizioni spaziali: una molteplicità di approcci al mondo si sedimenta nella successione cronologica delle fasi stilistiche entro cui si è dipanata l’azione congiunta del battere e del discernere. Differenti forme di percezione hanno concorso a creare mondi-ambienti, a delinearne gli ambiti territoriali, a rappresentarne gli aspetti formali e a dispiegarne talvolta gli elementi costitutivi.
Rappresentazioni di paesaggio e costruzione di paesaggi si intrecciano saldamente per tutto l’arco temporale dell’arte rupestre camuna mostrando nell’ampiezza di una gigantesca opera corale uno degli aspetti più significativi e duraturi dell’idea di paesaggio: la connotazione antropologica di un territorio, l’investimento simbolico di spazialità riconducibile all’ordine di rappresentazioni mentali quali sono le creazioni delle arti visive. E l’arte rupestre è di queste la più antica, se non la forma primaria.
Arte e paesaggio
Non è dunque fuori luogo ricordare la genesi del termine «paesaggio» e il debito che esso ha nei confronti della storia dell’arte, un’arte, quella rinascimentale, che ha saputo sancire sul piano dell’invenzione linguistica un rapporto tra uomo e territorio di lunga durata, come la Valcamonica insegna con un patrimonio figurativo che dall’Età medievale ridiscende senza soluzione di continuità verso la frequentazione saltuaria di piccoli gruppi di cacciatori della fine del Paleolitico.
Paysage è il termine che compare dapprima in Francia sulle fine del XV secolo e da lì a poco prende velocemente piede nelle lingue europee. Agli inizi del XVI secolo si fa strada in Italia. Nello stesso arco di tempo termini come landschap, landshaft, landscape con le loro varianti locali si diffondono tra Paesi Bassi, Germania e Inghilterra, tutti a designare in modo univoco la fortunata invenzione di una nuova forma di rappresentazione pittorica, sorta in area fiamminga e rapidamente diffusasi tra Italia e paesi transalpini, caratterizzata dalla visione prospettica di scorci d’ambiente creati ora dall’apertura di finestre o loggiati in scene d’interno, ora dalla successione di piani su cui si traslano figure ieratiche o scene di storie sacre in contesti geograficamente profani e talvolta ben identificabili (Tosco, 2007).
Si pensi, ad esempio, al paesaggio con alture che si scorge da tre finestre alle spalle del Gesù dell’Ultima Cena dipinta da Leonardo da Vinci (fig. 3) o alle alture con castelli e boschi che chiudono la spianata erbosa in cui si celebra il sacrificio dell’Agnello ritratte da Van Eyck nella predella a scomparti della pala di Ganz (fig. 4) o ancora all’ambiente alberato con lontane visioni di monti che fanno da sfondo con la torre di un castello alla figura di una Madonna con Bambino in trono dipinta dal Giorgione per la Pala di Castelfranco (fig. 5). Rappresentazioni che diversamente giocano con la costruzione di ambientazioni complesse e movimentate in cui l’altitudine, evocata dal profilo dei monti, ha un ruolo cruciale per lo sviluppo di altre dimensioni: la profondità dello spazio, come si può vedere nel Viaggio dei Magi di Benozzo Gozzoli creata con l’allineamento prospettico di un filare di alberi che risale verso l’apice di una collina ai cui piedi transitano i Magi (fig. 6) o l’ampiezza di paesaggi protesi sino al limitare dell’orizzonte come nel Pollaiolo per lo sfondo del Martirio di San Sebastiano (fig. 7) o in Antonello da Messina con la rappresentazione dell’omonimo stretto su cui svettano i simboli della Crocefissione, i tre alberi scheletriti appesantiti dal loro carico di morte (fig. 8).
Alture, vallate, pianori, corsi d’acqua sono tra gli elementi formali che più spesso ricorrono, coordinati attorno a punti di vista privilegiati, nella composizione dei paesaggi rinascimentali: elementi che richiamano, a ben vedere, aspetti e contesti presenti sotto tutt’altra forma sulla scena dell’arte rupestre camuna.
«Pittura di campagna» è la definizione che Vasari dava di paesaggio stabilendo così quella duplicità di significati che dalla fine del Rinascimento in poi il termine ha mantenuto vivo: genere pittorico, da una parte, e soggetto rappresentato, dall’altra. Una duplicità che al di là degli sviluppi avuti dalla parola paesaggio nell’ambito specifico delle arti, con la rivoluzione del gusto, e delle scienze naturali, con l’invenzione di nuovi approcci allo studio delle realtà ambientali e territoriali, ha avuto il merito di portare in trasparenza entro la luce di un inscindibile intreccio la funzione originaria e fondante dell’arte.
Perché, se il termine paesaggio, all’epoca della sua comparsa, risultava nuovo, come nuova era la prospettiva, la tecnica messa in campo per dare profondità agli sfondi delle scene dipinte, ben radicata nel tempo era l’idea che la parola, paesaggio, avrebbe continuato ad articolare nelle lingue d’Occidente.
Basti pensare, ad esempio, agli scrittori latini di età imperiale. Ben noto era fra loro il ricorso all’arte, in particolare alla rappresentazione pittorica, per designare un’ampia visione su una cospicua porzione di territorio. Solo una consolidata tradizione linguistica, che del dipinto aveva fatto una metafora, poteva ispirare una descrizione come quella che si legge della campagna laziale in una lettera scritta da Plinio il Giovane ad un amico: «proveresti un gran piacere se guardassi questa regione dall’alto dei colli: ti parrebbe infatti di scorgere non delle terre ma un quadro dipinto con incredibile maestria; da tanta varietà, da così felice disposizione gli occhi traggono diletto ovunque si posino» (Plinio il Giovane in Tosco, 2007). Ciò che dunque il linguaggio poteva già allora attestare, la trasposizione di un’arte in una «naturale» modalità percettiva, doveva postulare l’ormai certa e sedimentata consuetudine di «guardare» il mondo, la natura attraverso la mediazione pittorica, una mediazione riconducibile almeno ai primordi dell’arte egizia e alle successive fasi del suo sviluppo e della più ampia storia della pittura nelle civiltà del vicino Oriente e del Mediterraneo.
Là dove infatti l’arte antica albeggia appaiono figure che alludono a visioni di «paesaggio».
Paesaggi che si imprimono sulle superfici delle ceramiche e sugli intonaci delle pareti in muratura man mano che prendono corpo e forma i «mondi» vissuti degli uomini.
Ma che cosa è un paesaggio se non un quadro vitale d’azione dove emergono le ragioni e le emozioni di un «abitare»? Così l’arte nelle sue lunghe stagioni pare corrispondere all’esigenza primaria della percezione: comporre e ordinare campi d’azione, costruire quadri d’insieme da cui poter far emergere e determinare al meglio nel gioco della duplicazione, qui la natura e il senso della mimesis, il maggior numero di dettagli simbolici, che sono la carne del mondo. Nel destino della parola paesaggio dunque s’addensa la memoria di un più ampio destino: la destinazione dell’umano sulla Terra, la possibilità stessa dell’Esser-ci, il suo sussistere al mondo e il suo far sussistere mondi.
Abitare il paesaggio
Già Ranuccio Bianchi Bandinelli in un lontano articolo dedicato al tema del paesaggio, pubblicato nell’Enciclopedia dell’Arte Antica aveva lanciato, seppur fugacemente, un ponte tra la nascita della pittura di paesaggio e l’arte rupestre. Proprio la presenza di temi paesaggistici tra le prime manifestazioni dell’arte egizia, come le ceramiche predinastiche provenienti da Naqādah (fig. 9) e le pareti di una tomba del IV millennio rinvenuta presso Hierakonpolis (Fig. 10), testimoniava la continuità di una tradizione riconducibile all’universo rappresentativo delle incisioni (Bianchi Bandinelli et al., 1963).
Come per la storia europea la Valcamonica insegna con il suo plurimillenario repertorio di incisioni, l’arte rupestre ha nel paesaggio il proprio centro motore. E lo ha nella forma più organica e radicale messa in luce dalla nozione rinascimentale di paesaggio con la duplicità delle sue accezioni. Una duplicità che sulle rocce prende la forma di un chiasma, là dove l’atto dell’incidere costituisce nel medio stesso di una produzione artistica lo spazio rivelativo di un paesaggio, di un «luogo» nel senso oggettuale di un campo visivo.
Nel prefigurare, si potrebbe dire, il senso che ha innervato l’idea di paesaggio, l’arte rupestre costituisce una delle espressioni più sorprendenti e originarie dell’opera compiuta dai gruppi umani per identificare ambiti territoriali dove ubicare luoghi di abitabilità.
Così la Valcamonica si presenta con una esorbitante produzione di immagini, varie per contenuto e per stile, che, non diversamente dalla produzione pittorica, hanno raggiunto livelli figurativi di grande valore estetico, ora declinando rappresentazioni di paesaggio con linguaggi iconici più contenuti entro codici simbolici, ora più sciolti e naturalistici.
Immagini che, godendo del privilegio di trovarsi in situ, sono divenute direttamente parti costitutive del paesaggio-ambiente che hanno contribuito a porre in essere e da cui hanno tratto gli elementi delle loro specifiche rappresentazioni.
Sotto questo riguardo l’arte rupestre è in senso proprio arte «del» paesaggio, creazione di spazi percettivi carichi di sentimenti vitali. La dimensione emozionale, che così fortemente connota l’idea di paesaggio e che l’arte pittorica ha costantemente cercato di realizzare entro i riquadri di linee e colori, qui lievita dalle superfici istoriate, si espande tra gli scorci, le profondità, le vertigini e le verticalità degli ambienti che si dispongono lungo i tracciati visivi generati dalle disposizioni focali delle incisioni.
Squarci di ambiente incorporati, secondo il principio della pars pro toto, nella singolarità di figure animali, talvolta isolate, altrimenti inserite in articolate composizioni (fig. 11), rappresentazioni topografiche (fig. 12), scene di aratura, immagini di edifici a forma di capanna documentano, nell’insieme della produzione incisoria, il progressivo formarsi di una geografia umana che con il suo estendersi nel territorio ha dato senso e valore ai caratteri morfologici della valle.
Aspetti del paesaggio camuno
Si prendano in considerazione alcuni esempi, primi fra tutti le statue-stele e i massi incisi rinvenuti sull’Altopiano di Ossimo e Borno, ora in gran parte conservati al MuPre, il Museo di Capo di Ponte, originariamente infissi nel terreno a segnare linee di confine, quali oggi ancora suggeriscono in località Anvòia le copie di alcune stele riposizionate nel sito del loro ritrovamento (figg. 13-14 ).
Gli scavi condotti da Francesco Fedele sull’Altopiano di Ossimo e Borno nei siti di Asinino-Anvòia e di Passagròp non lasciano dubbi sulla puntuale, specifica, intenzionale correlazione tra pratica incisoria e paesaggio.
L’allineamento delle stele, l’orientamento delle loro facce principali verso il sorgere del sole, l’altitudine e l’esposizione dei terreni pianeggianti prescelti in vista di ampi scenari panoramici sul fondo valle e sulla cortina dei monti antistanti sono tutti elementi che concorrono a delimitare simbolicamente ambiti di territorio destinati ad accogliere attività di culto, pratiche rituali, non scevre da implicazioni, che oggi chiameremmo di natura geopolitica, relative alla definizione confinale di terre attribuibili alla sovranità di differenti gruppi tribali, come lo stesso Fedele ha sottolineato, affermando che «oltre al valore cultuale le località consacrate da “grandi pietre” potrebbe aver avuto il ruolo di punti nodali nel demarcare una nuova organizzazione del territorio» (Fedele, 1994).
Un’arte «del» paesaggio dunque l’arte rupestre, anche nel senso più remoto dell’etimo latino da cui i vocaboli della nostra lingua ‘paese’ e ‘paesaggio’ derivano: quel «pagus», che a Laura Bonesio, filosofa del paesaggio, risulta particolarmente denso di valori simbolici, di rimandi all’idea di fondazione (Bonesio, 2006), che i Romani avevano coniato per indicare una circoscrizione amministrativa, dapprima un distretto campagnolo nell’antico territorio di Roma ed in seguito alla sua espansione una più ampia entità territoriale talvolta con valore etnico, come si evince da Cesare, Livio e Tacito per i territori della Gallia.
Simboli e insieme strumenti di fondazione territoriale, le statue-stele e i massi incisi portano in mostra, prevalentemente sul lato anteriore delle loro sagome vagamente corporee, la rappresentazione di complesse cosmografie, «mondi imaginali» composti il più delle volte in fasi successive a formare per sovrapposizioni figurative veri e propri palinsesti di pietra (fig. 15). Temi uranici, quali dischi solari e aureole raggiate sul capo di figure antropomorfe stilizzate, si associano a chiari riferimenti tellurici, come sono le figure animali, nello spazio gerarchicamente organizzato di istoriazioni connotate dal forte richiamo all’umano, talvolta con l’allineamento di più figure antropomorfe, e ai suoi poteri: il possesso della terra, si vedano le mappe topografiche, la coltivazione, con scene d’aratura, e la domesticazione del fuoco con la conseguente trasformazione dei minerali grezzi in metalli per armi lucenti, come le alabarde e i pugnali incisi evocano.
I mondi così rappresentati ripropongono nella loro conformazione ideale lo schema di un modello originario, che mantenendosi identico nella varietà delle combinazioni iconografiche rispecchia, trasfigurandone gli assetti, i paesaggi dell’esperienza: i paesaggi che si estendono attorno ai monumenti e ai loro centri di culto, le porzioni di paesaggio vissute, abitate, rimaste all’apparenza in ombra nelle istoriazioni, ma ugualmente in esse risonanti come l’habitat che ogni animale inciso con cognizione di causa porta con sé e i luoghi e i percorsi delle attività economiche e produttive implicate con le immagini di armi, di aratura e di mappe topografiche. E là dove dai bestiari formati da molte specie irrompono sulla scena delle istoriazioni le figure di cervo, cervi maschi, le rappresentazioni si fanno icone delle forze che innervano e sostengono i mondi. Un fremente sentimento di rinascita si irradia dai loro palchi ben ramificati.
Tra le più convincenti testimonianze di quel chiasma d’arte rupestre e di paesaggio, che vede l’arte dell’incisione farsi interprete delle particolari condizioni morfologiche di un ambiente fisico e diventare pertanto artefice delle sue trasformazioni in paesaggio, in contesto immaginativo, in spazio scenico, vanno annoverati i massi di Cemmo, Cemmo 1 e Cemmo 2, i più noti monumenti del Calcolitico camuno dalla cui segnalazione nel 1914 ha preso avvio la storia archeologica della valle. Rinvenuti in località Pian delle Greppe, una breve conca, fino agli inizi del secolo scorso coltivata a viti e a frutteto, incastonata a modo d’anfiteatro tra una piccola altura e la parete verticale di un dirupo dalla cui sommità si erano illo tempore staccati, i due enormi massi, una volta incisi, hanno assunto l’aspetto di grandi iconostasi incorniciate sullo sfondo di pareti a loro volta trasformate, non più minacciose quanto protettive e includenti come le pareti absidali di una cattedrale a cielo aperto.
Quanto ancora persiste della sacralità del luogo, nonostante i numerosi dissesti urbanistici, è il reciproco riflettersi di ambientazione e di immagini incise. Istoriati tra il terzo e il secondo millenio a più mani, ben quattro le fasi documentate per Cemmo 1, i massi introducono alla visione di paesaggi surrreali costruiti con un sapiente gioco di simmetrie e di contrapposizioni nel linguaggio minuzioso, si direbbe, di un atlante zoologico specificamente dedicato al mondo dei mammiferi. Sospese in una dimensione atemporale, le immagini restituiscono un vivido affresco dell’ordine del vivente con le sue disposizioni normative, le differenze e le interne tensioni, da cui non sono esclusi i mondi umani raffigurati da armi, antropomorfi stilizzati, scene d’aratura e da un solo carro, presente su Cemmo 2.
La figura di un sole raggiato posto alla sommità della parete, affiancato da due asce e coronato sul lato inferiore da figure di stambecchi, scandisce in Cemmo 2 il forte senso di sacralità che si distribuisce negli ordini inferiori della composizione, ove compaiono in gruppo alcune figure di cerve (figg. 16-17). Ad un gruppo di imponenti figure di cervi maschi sovrastati da palchi all’origine ricurvi e successivamente raddrizzati e al loro incedere ieratico verso oriente Cemmo 1 assegna una chiara connotazione sacramentale (figg. 18-19).
Veri e propri segnacoli della storia del paesaggio, le figure di cervo spiccano tra le incisioni che meglio caratterizzano l’identità dell’arte rupestre camuna. Ve ne è una in particolare che per unicità di ubicazione e di contestualizzazione sintattico-lessicale testimonia in modo esemplare il gioco congiunto di istoriazione e creazione di campi visivi. Solitaria come in natura sono le abitudini dei cervi maschi, che difficilmente condividono con altri i territori se non per incontrarsi e confrontarsi in agoni nelle stagioni degli amori (nell’età del Ferro la lotta tra cervi diverrà metafora per designare altre lotte tra giovani guerrieri), la figura di un cervo campeggia in una composizione incisa in prossimità di un riparo sotto roccia in località Plan nel comune di Paspardo antistante uno strapiombo che sprofonda verso il fondovalle (fig. 20).
Composizione essenziale il così detto Capitello dei Due Pini presenta tutta l’articolazione di un paesaggio archetipico.
Con pochi elementi figurativi, dieci immagini, vi sono rappresentate le condizioni strutturali di un mondo, che definiremmo per il Calcolitico, il Mondo-della-Vita. Nel registro superiore la composizione mostra un palco di cervo semilunato nella posizione in altri monumenti dell’Età del Rame occupata dal simbolo solare. Nella parte mediana una fascia di otto linee parallele leggermente ricurve verso l’alto alle estremità divide l’istoriazione: linee d’acqua o segni d’aratura? Al di sopra della fascia, posizionati in quello che potremmo identificare con il tronco di un corpo, vi sono cinque pugnali, tre da un lato e due dall’altro con le punte delle lame convergenti all’interno. Sotto la fascia a livello di un ventre simbolico, per antonomasia luogo di processi metabolici, una figura di cervo in posizione araldica, rivolta verso l’albeggiare del sole, si contrappone simmetricamente a due figure di alabarde con lame fogliate orientate in direzione opposta. Ancora piena armonizzazione tra natura e cultura in un monumento che, simile a una meridiana priva dell’asta che proietta la sua ombra, riceve e insegue la luce giornaliera del sole nel suo movimento apparente. E per lo sguardo, che gli volge le spalle, il Capitello dei Due Pini riserva un prezioso punto di vista: una mirabile visione panoramica sulla valle e in particolare sulla Concarena, la grande montagna che domina, custode di numerosi siti rupestri, la media Valcamonica (fig. 21).
L’arte rupestre, occorre rimarcarlo, ubica nello spazio punti di vista, seleziona in una prospettiva naturale visioni, crea panorami, genera paesaggi. L’ampiezza di una visione è così radicata nell’idea di paesaggio che la salvaguardia di un panorama è entrata nella storia della legislazione italiana tra i criteri per la tutela del paesaggio. Lo ricorda Carlo Tosco nel libro Il paesaggio come storia ripercorrendo la genesi delle prime leggi in difesa del patrimonio storico, artistico e ambientale, in particolare le ragioni che portarono alla prima legge di tutela promulgata nel 1905 con il sostegno dell’allora ministro dell’Agricoltura Luigi Rava la necessità di sottrarre a imponenti piani di bonifica la pineta di Ravenna, i cui paesaggi s’erano sedimentati nella memoria e nell’immaginazione collettiva grazie alla mediazione delle arti, all’opera narrativa di Boccaccio che aveva contestualizzato tra i suoi alti pini le avventure di una novella del Decameron e alle tavole dipinte della scuola del Botticelli ritraenti scene di paesaggi boscosi e costieri ispirate a quelle avventure (Tosco 2007). La conservazione dell’arte rupestre potrebbe così divenire, a sua volta, strumento di tutela di più ampi paesaggi.
Con la fine del megalitismo la storia del paesaggio camuno conosce altri scenari. Altre aree di culto si diffondono, mentre alcune, le più antiche, si arricchiscono di nuove testimonianze. Le figure di cervo si moltiplicano, le loro rappresentazioni si fanno più naturalistiche (fig. 22). Orizzonti ancora inesplorati si delineano al di là delle composizioni monumentali: il simbolismo si tinge della storicità delle comunità locali. Il divino assume fattezze più umane e le figure antropomorfe si rivestono delle posture e degli abbigliamenti di giovani o di guerrieri. I cervi continuano a marcare i territori della narrazione ma ciò che raccontano non riguarda l’ordine del mondo ma le gesta dei guerrieri, la loro iniziazione, il loro status sociale, i loro spazi di vita, il destino che li attende. I paesaggi che si ricompongono così entro i confini degli spazi sacri contengono tracce di spazi vissuti e ombre di spazi immaginati in un continuo gioco di rimandi tra mondi terreni e aldilà.
Giacomo CAMURI
Coop. Arch. ‘Le Orme dell’Uomo’ piazza Donatori di Sangue 1 25040 Cerveno (BS) Italy
Bibliografia
Bianchi Bandinelli, R.; Grousset, R.; Auboyer, J.; Siren, O., 1963, Paesaggio, in Enciclopedia dell’arte antica classica orientale, 5, Treccani: Roma 1963.
Bonesio, L., 2006, Paesaggio. In Enciclopedia Filosofica, 7, Bompiani: Milano.
Fedele, F., 1994, Ossimo (Valcamonica): scavi in siti cultuali calcolitici con massi incisi. In AA.VV., Le pietre degli dei.
Menhir e stele dell’Età del Rame in Valcamonica e Valtellina, Bergamo, Civico Museo Archeologico: Bergamo
Plinio il Giovane, Epistolae, I, lib. V, 6. In C.
Tosco Il paesaggio come storia, Il Mulino: Bologna. pp. 17-18.
Tosco, C. 2007, Il paesaggio come storia, Il Mulino: Bologna
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