Il complesso di Sarmishsay (uzbeko: Sarmishsoy), con oltre 10mila incisioni, rappresenta il sito più rilevante dell’Uzbekistan per l’arte rupestre, testimoniando la presenza di antiche civiltà umane. Per la sua importanza, il sito è stato inserito nella lista propositiva del patrimonio mondiale dell’UNESCO. I petroglifi di Sarmishsay, scoperti e studiati nel 1958 da Kh.I. Mukhamedov, hanno attirato l’attenzione di archeologi e storici di tutto il mondo.
by Oriana BOZZARELLI – Università di Torino
I petroglifi della Via della seta:
la gola di Sarmishsay
(December 21, 2023)
L’Uzbekistan, situato nel cuore dell’Asia Centrale, è famoso per Tamerlano, per le antiche madrase, per le splendide città medievali dalle architetture riccamente decorate tra le più rappresentative della leggendaria Via della Seta (basti pensare a Khiva e Bukhara, vere e proprie città museo), per la piazza del Registan a Samarcanda e per il gustoso plov. I tesori dell’Uzbekistan, tuttavia, non possono non comprendere anche uno dei complessi di petroglifi più estesi ed importanti dell’Asia Centrale: i petroglifi di Sarmishsay.
Il complesso di Sarmishsay (uzbeko: Sarmishsoy), con oltre 10mila incisioni, rappresenta il sito più rilevante dell’Uzbekistan per l’arte rupestre, testimoniando la presenza di antiche civiltà umane. Per la sua importanza, il sito è stato inserito nella lista propositiva del patrimonio mondiale dell’UNESCO[1].
I petroglifi si trovano nella gola di Sarmysh – sul versante meridionale dei monti Karatau[2], a circa 35 km a NE da Navoi e non lontano dalla città di Nurata – e sono sparsi lungo tutta la valle sulle superfici verticali di arenaria a cemento siliceo; le concentrazioni più rappresentative sono raggruppate in un canyon che si estende per 2–2,5 km, su entrambi i lati della gola.
La valle di Sarmysh, proprio per la sua struttura geomorfologica, presenta una grande biodiversità: la flora annovera oltre 650 specie vegetali di cui 27 endemiche e, dal punto di vista faunistico, si registra, ad esempio, la presenza del cobra dell’Asia centrale, diverse specie di aquile, l’avvoltoio monaco (Aegypius monachus) e la pecora selvatica (Ovis ammon).
Nel 2004 Sarmishsay ha acquisito lo status di riserva-museo del paesaggio naturale e storico-archeologico all’interno del Museo di Storia ed Etnografia Regionale (città di Navoi), tuttavia la mancanza di fondi ne impedisce ad oggi il pieno funzionamento.
Per quanto riguarda il contesto archeologico, la riserva di Sarmishsay è molto “densa”, infatti comprende in un territorio di circa 35 km², unitamente al corpus dei petroglifi, oltre 200 siti archeologici aggiuntivi, tra cui insediamenti, necropoli, resti di abitazioni, fortificazioni, villaggi, mulini, sistemi di irrigazione, tumuli funerari (kurgan, ossari), recinti sacri, mazars e tracce di officine del Paleolitico e miniere di selce del Neolitico[3]
I petroglifi di Sarmishsay, scoperti e studiati nel 1958 da Kh.I. Mukhamedov, hanno attirato l’attenzione di archeologi e storici di tutto il mondo. Dopo la scoperta le ricerche hanno coinvolto studiosi uzbeki e internazionali, tra i quali il polacco Andrej Rozwadowski[4] e la zoologa A. Lasota-Moskalewska. Dal 2003 è attivo il progetto uzbeko-norvegese Management and Sustainable Conservation of Sarmishsay guidato da M.M. Khujanazarov e Anne-Sophie Hygen con un approccio interdisciplinare che coinvolge l’ambito archeologico, botanico, geologico e geomorfologico. Sono stati condotti, e sono ancora in corso, studi naturalistici, ulteriori studi e scavi archeologici che hanno proposto una cronologia relativa dei petroglifi basata su stile, tecnica, patina e confronti con altri reperti. Tuttavia, non è ancora stata individuata una precisa classificazione tipologica dei petroglifi di Sarmishsay e manca una suddivisione cronologica dettagliata; la datazione dei nuclei più antichi rivela ancora parecchie incertezze: Neolitico, Eneolitico o Età del Bronzo?
Cosa troviamo raffigurato sulle rocce? I petroglifi di Sarmishsay, che variano molto per stile, tecnica ed epoca (con sovrapposizioni che indicano stratificazioni temporali) ci mostrano animali come i tori selvatici, l’uro (Bos primigenius), il bisonte, il cervo rosso, l’asino selvatico asiatico, la gazzella persiana, i predatori della famiglia felina (tigre, leone, leopardo, ghepardo), i cervi, gli stambecchi, i cinghiali, i cavalli, molte scene di caccia, ma anche danzatori, cammelli a tre gobbe e uomini con due teste. Le immagini più antiche – proprio quelle citate qui sopra – vengono fatte risalire dagli studiosi al tardo Mesolitico (15.000–6.000 a.C.), al Neolitico (VI-V mill. a.C.), all’età del Rame (IV mill. a.C.) e all’Età del Bronzo (III-II millennio a.C.). Le dimensioni di queste figure variano da 30–40 cm fino a 70–80 cm. All’età del Ferro (periodo Saka-Scita, 900–100 a.C.) apparterrebbero figure di dimensioni più piccole rispetto alle precedenti che rappresentano cavalieri, armi (archi, faretre, spade, pugnali), simboli e cacce rituali, caratteristiche delle culture nomadi. Databili al Medioevo sarebbero le scene cultuali ed epiche collegate allo zoroastrismo, mentre le incisioni più recenti (XX sec.) includono cavalli, uccelli, scritte arabe e simboli.
Non possiamo non riflettere sullo stato di gestione e di conservazione attuale del sito, constatato in un recente viaggio. Ad oggi a Sarmishsay sono attive alcune piccole fattorie di bestiame, è presente una strada non asfaltata e, ai due lati del canyon, i campi estivi per bambini sono stati convertiti in strutture ricettive per turisti.
Un grande pannello accoglie i visitatori alla gola, fornendo le indicazioni di un percorso e una sintetica mappa dei punti di maggiore concentrazione dell’arte rupestre, con le fotografie delle immagini più rilevanti. Un secondo pannello illustra le caratteristiche archeologiche e naturalistiche dell’area. Lungo la gola, è stato allestito un percoso di visita di circa 1,7 km, che costeggia sul fondovalle i due versanti e permette di ammirare i petroglifi più significativi lungo un sentiero con piano calpestabile in pietra.
L’attività turistica è fiorente e in crescita: i locali frequentano assiduamente la gola con attività di picnic, campeggio libero e deposito incontrollato di rifiuti e possibili atti di vandalismo anche involontario ai petroglifi); le visite al sito iniziano ad essere incluse nei pacchetti turistici per stranieri che viaggiano da Samarcanda a Bukhara.
Sarmishsay è un vero e proprio museo a cielo aperto dal valore unico. Nonostante ciò, le autorità non hanno ancora delimitato confini ufficiali né adottato misure di tutela e protezione efficaci alla conservazione del sito. Le attività economiche e turistiche, senza adeguato controllo, rischiano di mettere seriamente in pericolo l’integrità archeologica e paesaggistica dell’area.
Oriana BOZZARELLI
Università di Torino
[1] Si veda la relazione UNESCO https://whc.unesco.org/en/tentativelists/6784/ che presenta molti dettagli sulla datazione e confronti con altri siti di arte rupestre dell’Asia centrale, in particolare quelli di Tamgaly (Kazakistan) e di Saymaluu-Tash (Kirghizistan).
[2] I versanti meridionali dei Karatau, attraversati da valli di erosione degli affluenti del Zarafshan, ospitano la valle di Sarmishsay (lunga 30 km) ricca di fauna selvatica e di fonti d’acqua, un luogo ideale per le antiche popolazioni di pastori nomadi e agricoltori.
[3] Muhiddin Khujanazarov, Petroglyphs of Sarmishsay, online https://silkadv.com/en/content/petroglyphs-sarmishsay.
[4] Lo studioso polacco Andrzej Rozwadowski ha dedicato molta attenzione all’arte rupestre dell’Asia Centrale. In alcuni saggi del 2001 (si veda la bibliografia in calce al presente contributo), si allontana dalla lettura tradizionale dei petroglifi rinvenuti nella valle di Sarmishsay come semplici scene di caccia o culti solari, proponendo una nuova interpretazione delle incisioni come riflessi di pratiche rituali e stati di coscienza alterati sperimentati in un contesto sciamanico. Al centro della tesi di Rozwadowski c’è l’analisi di figure antropomorfe con teste ovali sproporzionatamente grandi, spesso ornate da motivi a zigzag, che, potrebbero simboleggiare – anziché attributi solari – visioni indotte dalla trance. L’attenzione dello studioso si concentra anche su altri elementi iconografici distintivi, come bastoni ricurvi e attributi animali che interpreta come tratti indicativi di travestimenti rituali. I bastoni, in particolare, potrebbero rappresentare strumenti che facilitano il viaggio dello sciamano tra il regno terreno e quello spirituale. Questa lettura è supportata da analogie etnografiche con le pratiche sciamaniche dell’Asia centrale. Inoltre, la presenza di elementi naturali della roccia, come le crepe, nelle composizioni dei petroglifi viene interpretata come portali simbolici o transizioni tra i mondi, un concetto centrale nella cosmologia sciamanica. Rozwadowski esplora anche l’intersezione di queste interpretazioni sciamaniche con le tradizioni mitologiche indo-iraniche ed ipotizza che i petroglifi possano riflettere una sintesi di pratiche sciamaniche indigene e concetti religiosi indo-iranici emergenti durante l’età del Bronzo, illustrando una complessa interazione culturale in grado di collegare le pratiche spirituali preistoriche con narrazioni mitologiche più ampie. In sintesi, Rozwadowski propone che l’arte rupestre dell’Asia centrale non debba essere interpretata esclusivamente attraverso categorie archeologiche, ma piuttosto come espressione di sistemi simbolici complessi, influenzati da tradizioni religiose, pratiche sciamaniche e significati culturali profondi. Il suo approccio integrato offre una comprensione più ricca e sfumata dei petroglifi, evidenziando la loro funzione come mezzo di comunicazione e riflessione spirituale nelle società preistoriche.
Sarmishsay, galleria fotografica (foto Oriana Bozzarelli)
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