A chi frequenta la montagna, capita spesso lungo i suoi sentieri di incontrare il “segno” della croce, sia nelle baite che inciso direttamente sulle rocce rocce nei pressi degli abitati. Sovente le croci sono di tipo semplice, ma talvolta si presentano più complesse o corredate da date e lettere. E’ una tradizione incisoria che mostra una vasta estensione geografica e radici assai profonde nel tempo, probabile retaggio di una consuetudine ancora viva ai tempi della Cristianizzazione delle regioni alpine.
by Enrico Gallo
Croci cristiane rupestri
Tra le antiche Vie Francigene del Canavese
Introduzione
Fin dalle origini dell’uomo le pietre, dalle più grandi alle più piccole, hanno sempre suscitato un interesse e rivelato un’importanza non certo indifferenti. Sono sovente l’unica testimonianza materiale a noi pervenuta non solo delle culture umane più lontane ma anche dei progenitori dell’uomo; grazie alla loro analisi è possibile indagare sulle abitudini e sugli spostamenti dei loro proprietari.
L’umanità portò sempre con sé le pietre migliori e cercò di utilizzarle nei modi più disparati: da rasoio affilatissimo ad amuleto, da statua antropomorfa a colonna, da muro ad abitazione.
La pietra era ed è sempre lì, vicina all’uomo, fedele ed eterna compagna nel tortuoso sentiero temporale che vide l’evolversi delle culture e delle civiltà fino ad arrivare al più recente passato. E, forse, proprio per questo profondo e duraturo legame, l’uomo le ha conferito da sempre un interesse speciale, un posto in primo piano nella sua vita quotidiana1, non solo nella lontana Preistoria, ma anche in tempi molto più vicini a noi.
Un rapporto davvero speciale
Attraverso il susseguirsi delle “culture” (come le definiscono gli antropologi) gli studiosi osservano la trasformazione della lavorazione della selce, associata a innovazioni culturali e a tecniche più efficaci nell’approvvigionamento del cibo. Fin dal 1969 il britannico Graham Clarke ha suddiviso l’evoluzione della tecnica della lavorazione della selce in 5 fasi, partendo dal semplice chopper fino ad arrivare all’industria microlitica degli ultimi Paleolitici, della cui presenza quali rimangono testimonianze fino al Mesolitico (11.000-9.000 anni fa) anche nel territorio alpino2.
Le fasi più evolute della lavorazione della selce sono spesso associate nei siti preistorici anche alla produzione di altri manufatti, ma soprattutto compaiono le decorazioni sugli oggetti stessi (e poi anche sulle pareti delle grotte), le prime testimonianze della capacità di astrazione, di vedere in un oggetto un’altra cosa. In altre parole compaiono i simboli e con essi l’arte rupestre.
Già di per sé la pietra rivestiva un interesse particolare, ma se veniva finemente decorata allora doveva esserlo ancora di più. La pietra quindi non è solo più un materiale speciale ma assume, con la nascita dell’arte in generale, anche un significato decisamente più profondo, spesso anche rituale e cultuale, simbolicamente legata ad un concetto di eternità.
Da decine di migliaia di anni l’umanità lascia il suo segno sulla pietra e sulle rocce, spinto da una ispirazione molto forte ma anche interiore, che fin da subito denota la sua componente mistica e religiosa. Questo è il motivo dominante nello scenario dell’arte rupestre. Ma è altrettanto l’unico motivo che spiega l’estensione globale del fenomeno, del numero di incisioni rupestri presenti non solo in Valcamonica, ma anche su tutto l’arco alpino.
Nel frattempo la pietra, da semplice utensile appena sbozzato, divenuta un oggetto rappresentativo della capacità dell’uomo di dominare la natura, assume, se modellata in nuove sembianze, un ulteriore significato e diventa “viva”, acquisendo un “valore” addirittura soprannaturale. Di conseguenza, il gesto di “modificare” la forma (o anche solo il colore) della pietra diventa rituale, un momento di avvicinamento alle divinità o alle forze misteriose che governano la natura.
Tale retaggio, che come abbiamo visto risale alla Preistoria, è sopravissuto nel tempo ed è rimasto vivo fino almeno ad un secolo fa. Non è trascorso in effetti molto tempo da quando nelle vallate alpine, Canavese compreso, ancora si incideva un segno (spesso una croce) sull’architrave, solitamente di pietra, per suggellare l’edificazione ad esempio di una baita, con fini ingenuamente augurali e apotropaici (fig. 1).
A chi frequenta sentieri in montagna capita assai sovente di incontrare il “segno” della croce nelle case e nelle baite, sia isolate che all’interno dei paesi dislocati lungo tutto l’arco alpino. In altri casi il segno cruciforme si trova inciso direttamente nella roccia nei paraggi dell’abitato. Spesso le croci sono di tipo semplice ed isolate, ma talvolta le si trovano in versioni più complesse o corredate da date e lettere. L’estensione geografica di tale tradizione incisoria, dunque, deve avere delle radici assai profonde nel tempo e probabilmente doveva essere ancora esistente all’inizio della Cristianizzazione delle regioni alpine.
Tra il pagano ed il cristiano
Il territorio canavesano non presenta affioramenti di selce, ma è d’altra parte assai ricco di altri minerali e di pietre utili per le attività umane. Questo fattore ha fatto sì che fin da quando l’anfiteatro morenico di Ivrea fu liberato dai ghiacci, le colline e le montagne del Canavese hanno ospitato senza interruzione culture e popolazioni che sfruttavano i materiali presenti nel territorio: dai quarzi del Monbarone ai ciottoli in pietra verde levigati dai torrenti; dall’oro della Bessa al ferro della Valchiusella, tanto per citare qualche esempio significativo.
Ma interessavano agli antichi anche i grandi massi erratici, i dorsi di balena degli affioramenti levigati ad arte dal ghiacciaio, o i scisti da cui ricavare sostegni, colonne, architravi ecc.
Una tale abbondanza di materiale litico non poteva fare altro che restituire numerose testimonianze di arte rupestre, sia sotto forma di incisioni sulla roccia, sia attraverso elaborazioni monumentali quali le Stele antropomorfe di Tina di Vestigné o i menhir di Lugnacco, Mazzé e Chivasso. Il materiale raccolto dagli studiosi coinvolge un arco temporale assai vasto: gli antichissimi antropomorfi della Pera dij Crus, le migliaia di coppelle sparpagliate tra i massi sono gli esempi statisticamente più rappresentativi del territorio ma ad essi si aggiungono, per la quantità e diffusione geografica, anche i cruciformi.
Come già da subito individuato dagli studiosi, le culture protostoriche (Liguri, Celti, Salassi ecc..) insediate nel territorio alpino possedevano un “culto” che prevedeva l’adorazione delle pietre, talvolta con libagioni e versamento di liquidi (acqua, sangue?) sulla roccia rappresentante la divinità3.
Indifferenti a tale tradizione religiosa, i Romani, quando conquistarono il territorio (verso la fine dell’ultimo secolo avanti Cristo), con tutta probabilità lasciarono sopravvivere il culto preesistente, che si mantenne vivo almeno in quella parte della popolazione discendente dagli abitanti indigeni. Ma, nel giro di un paio di secoli, una nuova fede, il Cristianesimo, iniziò a diffondersi su tutto il territorio dell’Impero e giunse anche nelle regioni alpine (IV-V secolo), dove incontrò probabilmente una certa resistenza. Non solo il culto fu vietato, ma anche la tradizione di incidere la pietra fu bandita e, dove possibile, i simboli del culto delle pietre furono distrutti. La severità con cui già da subito il Clero si oppose ai culti “pagani” è testimoniata dalle numerose bolle papali che vietano i culti di venerazione delle pietre, quale ad esempio quella del Concilio di Nantes del 658 , nel Canone 20, che dispone di “…rimuovere e gettare in luoghi dove non si possa più trovarle le pietre venerate nelle foreste o presso le rovine, oggetto di falsità diaboliche e sulle quali si depositano ex-voto, candele accese o altre offerte4”.
Di conseguenza, ci si sarebbe dovuto aspettare di non vedere nessun segno inciso sulla “pagana” pietra, nemmeno le croci. Invece, nonostante gli ammonimenti dei pontefici, la pietra continuò ad essere considerata e venerata poiché nei luoghi sacri o che possiedono una tradizione religiosa, lungo le vie percorse dai pellegrini in cammino o in processione, sia sui massi affioranti sia su pietre di piccole dimensioni, si possono osservare ancora oggi con una certa frequenza incisioni cruciformi di chiara matrice cristiana, solitamente delle semplici croci greche o latine, che evolvono anche in forme più elaborate e complesse.
Evidentemente tale apparente contraddizione deve essere il risultato di un compromesso; si potrebbe ipotizzare che, nonostante gli avvertimenti dall’alto, i preti e i monaci, cioè coloro che erano a contatto con la gente comune, tollerassero le loro precedenti tradizioni. Stiamo parlando, d’altra parte, di un periodo storico assai difficile, dove probabilmente la popolazione pensava unicamente a sopravvivere, mentre l’Impero andava in rovina, mentre orde di banditi armati infestavano le vie principali, mentre le carestie non facevano altro che favorire le grandi epidemie provocando serie ripercussioni demografiche.
Un periodo, quello di passaggio tra l’Età Romana ed il Medioevo (V-X secolo), ancora assai oscuro e del quale mancano molti “tasselli”, anche nel territorio canavesano, dove le testimonianze archeologiche e storiche sono piuttosto esigue.
L’interruzione delle principali vie di comunicazione portò, oltre alla drastica diminuzione di risorse commerciali fondamentali (si pensi ad esempio al sale), alla nascita delle cosiddette “Vie Francigene”, ovvero dei sentieri o al più mulattiere, solitamente lontani dalle strade principali e dai grandi centri abitati ma decisamente meno pericolosi. Poiché venivano frequentate dai pellegrini cristiani, è assai probabile che le comunità cristiane locali provvedessero ad un minimo di sorveglianza e manutenzione. Le stesse Vie Francigene si snodavano tra chiese o altri centri di interesse religioso, in una sorta di percorso a tappe5.
Due rare testimonianze di quel difficile periodo, sono illustrate sopra e provengono direttamente da edifici di culto, sorti tra i primi in Canavese. A Burolo (TO – I), sull’amena località della Maddalena, sorge una chiesetta tra le più antiche del territorio (IX-XI secolo) (fig. 2). Tra le sue mura, ben esposta verso l’esterno, si riconosce una lastra marmorea dedicata ad un certo Basilio nell’anno del “…Consolato di Valentiniano (Aug) e Anatalio…”, cioè intorno al 440. In alto e al centro della lastra compare una piccola croce latina, simmetrica al testo e probabilmente coeva ad esso. In alto a destra si osserva, profondamente incisa una croce rinforzata all’estremità dei bracci. Questo tipo di croce è assai simile a quella di Loranzé (di cui parleremo tra poco), usata solitamente nei riti di Cristianizzazione di un masso pagano. Stranamente, vicino al bordo destro della lastra appaiono altre tre croci, assai diverse dalle precedenti e non conformi all’incisione epigrafica. Esse, probabilmente non di molto posteriori alla lastra, sono graffite un po’ frettolosamente e in parte si sovrappongono al testo. Due di esse sono croci greche semplici, mentre la terza più in basso presenta una curiosa biforcazione all’estremità dei bracci. Si potrebbe pensare ad un atto vandalico già in antico, ma in questo caso avremmo trovato qualcosa di diverso, non certo delle croci..
Il secondo caso proviene da Lugnacco (TO – I) e sul particolarissimo campanile (un rarissimo esempio di porte-clocher) dell’antica Pieve di S. Maria (X-XII secolo) (fig.3a), un recente e fortuito distacco dell’intonaco (nel 2010) ha portato alla luce l’intonaco sottostante6, che aderisce direttamente sulle pietre di sostegno del campanile e quindi deve essere più o meno contemporaneo all’edificazione del campanile (tra l’altro esso costituisce la parte più antica dell’intero edificio ecclesiastico). La sorpresa più grande è stato notare, (grazie alla luce radente del sole che ha permesso di individuarle) la grande quantità di croci incise, in vari modi e probabilmente dovute a tante mani, che costellano tutta la parte messa alla luce dal cedimento del recente intonaco. Non appaiono dediche scritte, nemmeno una lettera, quasi che le mani che hanno inciso quei segni fossero quelle di persone analfabete, povere, forse delle suppliche o delle preghiere o, esattamente al contrario, dei segni augurali o di ringraziamento (fig. 3b).
I graffiti cruciformi sulla lastra di Basilio e quelli del campanile di Lugnacco sono assai differenti da quelli che compaiono spesso sulle rocce incise, solitamente a coppelle, probabilmente ex ricettacoli degli ormai quasi scomparsi culti pagani, come appare ad esempio sul Monte Cordola a Loranzè (fig. 4).
In questa località (anche qui siamo nei pressi di una chiesetta romanica) l’unica croce, profondamente incisa sulla roccia, rappresenta un “marchio ufficiale” dell’avvenuta cristianizzazione, che sancisce la purificazione del masso pagano (come testimonierebbero le numerose coppelle incise nei pressi).
Come a Loranzè, si trovano croci di “cristianizzazione” del tutto analoghe anche sul sito dell’Età del Ferro sulla Paraj Auta a Pavone, sul Truchet di Biò a Borgofranco, tanto per citare solo pochi esempi7.
Ma, come già detto sopra, in particolare lungo i sentieri per gli alpeggi montani o sulle Vie Francigene si osservano incisioni con un’evoluzione alquanto singolare dell’impianto cruciforme, ormai divenuto simbolo universale della fede dei cristiani. Le incisioni più complesse suggeriscono che ci fu pure una forma di espressione artistica del simbolo della croce, anche se molto povera nei contenuti e nella lavorazione, ma che fuoriesce dagli schemi “uniformi” che abbiamo incontrato fin qui.
Croci sulle pietre
Un esempio interessante riguardo tale ipotesi, può essere rappresentato da un grossolano cruciforme dalla forma decisamente inusuale, osservabile prima di arrivare all’abitato di Nomaglio (TO – I) su un masso, purtroppo frammentario, (CAN.NOM03) lungo la Via Francigena, poco prima del vecchio Mulino.
Le misure del cruciforme sono 23 x 14 cm circa ed è accompagnato a destra da un segmento di circa 11 cm, ancor più grossolano e apparentemente incompleto. La lavorazione è stata realizzata a martellina, con un percussore metallico. E’ invece completamente assente la levigatura. I bracci della croce, curiosamente non allineati e asimmetrici, terminano con un’ulteriore ramificazione della croce e conferiscono un aspetto più antropomorfo alla figura (un crocefisso?), ma l’assenza completa della testa e delle gambe tendono a scartare questa ipotesi interpretativa. Il colore della pietra nella parte non incisa, appare arrossata a causa della lunga esposizione all’aria, che ossida le particelle di ferro esposte in superficie (definita “patina”). La parte incisa, invece, non possiede tale colorazione e di conseguenza possiamo ipotizzare un’età abbastanza recente, sicuramente nell’ordine di qualche secolo, ma anche escludere con ragionevole sicurezza un’età nell’ordine dei millenni, e concludere che si tratta di un’incisione di età storica (fig. 5). Per avvalorare l’ipotesi di una incisione cristiana, con soggetto la croce, possiamo fare qualche comparazione con altre incisioni cruciformi complesse, assai frequenti nella zona tra Nomaglio ed Andrate, forse proprio a causa della presenza della Via Francigena.
Limitando la ricerca nei dintorni, una rappresentazione dell’icona cristiana molto simile, sempre su pietra, la troviamo ad esempio sopra l’ingresso principale della chiesa parrocchiale di Andrate (fig.6), dove, murata con cura e ben in evidenza sulla facciata, si trova una bella pietra con inciso, al centro, una croce assai complessa, ricrociata più volte sui bracci e che prende origine dalla barra centrale della H appartenente alla sigla cristiana IHS. Nello stesso petroglifo si notano due cerchi semplici e due rappresentazioni floreali, simmetrici rispetto al cruciforme centrale. La data incisa a destra, 1715, sancisce, senza alcun dubbio, l’anno della sua realizzazione.
L’artista, se così si può chiamare, utilizzò uno scalpello metallico, dopo una sbozzatura della pietra ed una successiva levigatura della superficie all’interno di un bordo vagamente pentagonale. Anche se l’intento decorativo nella composizione risulta evidente, le chiare asimmetrie, le lettere sproporzionate e i due fiori (quello a sinistra ha i “petali” piegati per far rientrare la figura) denotano una forma artistica decadente, povera e realizzata da un artigiano inesperto, che produsse un’opera che nell’impianto globale si potrebbe definire ingenua.
Ritornando a Nomaglio, ma sempre restando nell’argomento delle croci complesse, una pietra incisa, di piccole dimensioni, è stata ritrovata durante recenti lavori di restauro di una abitazione proprio nel centro del paese (fig. 7).
Il blocco di pietra misura circa 25×15 cm e presenta una croce complessa e ricrociata. Anche se mostra una croce più semplice della precedente, qui l’incisione è più profonda e regolare, la lavorazione più accurata e l’impianto del cruciforme è più lineare. Non è possibile darle una datazione precisa, anche se, proprio per la forma del cruciforme (la croce “ricrociata” era già diffusa nel XII secolo) possiamo ritenerla più antica di quella di Andrate. La tecnica utilizzata, a martellina con punteruolo metallico, è stata eseguita con maggior precisione e lascia intuire una certa esperienza nella realizzazione della croce. Oscura però rimane l’origine ed anche la funzione poiché la pietra non è ascrivibile ad un contesto religioso-cultuale.
Spostandosi appena sopra l’abitato, in direzione delle prime ripidi pendici della montagna sovrastante Nomaglio, su una pietra posta a gradino in uno dei sentieri che collegano il paese con l’altura soprastante, si nota, non senza fatica, un triplice cruciforme, una rappresentazione completa della crocifissione, con la croce centrale posta sul punto più alto del calvario (o golgota) (fig. 8). L’incisione, realizzata a martellina con un punteruolo in ferro, è piuttosto stretta (circa 10 mm) e la patina presente sul solco lascia intendere che sia un’incisione piuttosto antica ed esposta agli agenti atmosferici da lungo tempo.
La pietra incisa, utilizzata appunto come gradino, non è posta in un punto di particolare interesse, nemmeno dal punto di vista panoramico. Essa era nota solo a chi percorreva sovente quel sentiero, che giunge ad un terrazzamento coltivato privo di interesse religioso o di tradizioni particolari. In questo caso la tipologia del triplo cruciforme si sviluppa in modo inconsueto e, anche se siamo di fronte ad una manifestazione artistica del culto cristiano, per assenza di comparazioni valide non possiamo determinarne l’inquadramento cronologico.
La superficie esposta è quasi piana e, a parte l’incisione cruciforme, non presenta altre tracce di lavorazione. Sembra di essere, piuttosto, di fronte ad una realizzazione più istantanea ed immediata, una specie di devozione privata e personale, lontana dall’abitato e dagli sguardi, ma che rivela un intimo bisogno di esprimere la propria fede sulla pietra al tempo stesso nascondendola, forse per il timore di aver commesso qualche cosa di sbagliato o addirittura di sacrilego.
Conclusioni
Ancora una volta, nel lungo evolversi delle culture e delle popolazioni, si assiste ad un fenomeno, definibile con il nome di arte rupestre, che si ripete fin dal passato più remoto. Gli “ingredienti”, che caratterizzano il fenomeno, ci sono tutti: la scelta del materiale e degli strumenti più adatti, la motivazione profondamente cultuale e rituale, e il chiaro intento di manifestare un “pensiero” sulla pietra come espressione liberatoria di un bisogno interiore. Poiché il segno cruciforme compare anche su incisioni e su reperti preistorici e protostorici, possiamo affermare che la croce non fu un’invenzione del Cristianesimo (addirittura la si può ritrovare tra i glifi Maya, e anche nell’alfabeto greco, la cui lettera X ispirò il nome di Cristo…), ma il territorio cristianizzato lo adottò come simbolo, esaltandone al massimo la sua forma grafica.
Ecco dunque che la croce assume le forme più diversificate e la si ritrova un po’ dappertutto nel territorio, in particolare nei territori in quota e nei pressi degli alpeggi e sugli architravi delle baite. Le croci sono talmente comuni che spesso non le notiamo nemmeno, eppure ci troviamo di fronte ad un rito che, in un modo o nell’altro, proviene dal più lontano passato.
Con il progressivo abbandono della transumanza e della pastorizia in quota, si sta perdendo ormai anche questa tradizione, che era rimasta confinata nell’ambiente montano, ma ancora tramandata fino ad un secolo fa, come testimonia la data 1905 a fianco del cruciforme (tra i più recenti che io conosca) all’inizio del suggestivo e famoso Sentier ‘dle anime8, che possiede una notevole varietà di forme cruciformi complesse.
Dal censimento e dalla ricerca delle incisioni cruciformi nell’arco alpino emerge una tradizione incisoria dal tratto comune e dalle caratteristiche comuni.
Come già avvenne nel lontano passato, incidere simbolicamente la pietra è un gesto primordiale che fuoriesce dai limiti del tempo, sia che si tratti di un uomo preistorico adoratore delle pietre, sia che si tratti di un devoto, ugualmente illetterato, cristiano.
Il Canavese possiede ancora, per lo studioso e per l’appassionato, zone non esplorate e anfratti da riscoprire, angoli di vecchie case e muri di antiche chiese, ma di sicuro ogni volta che giunge una nuova scoperta viene aggiunto un piccolo tassello di quel grande mosaico fatto di muti ma significativi messaggi che, in fin dei conti, uomini dal volto sconosciuto e di tutte le epoche hanno voluto trasmettere per l’eternità forse proprio a chi avrebbe, un giorno, abitato la “loro” terra .
Enrico Gallo
NOTE E BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
1 -Leroi-Gourhan A. 1964. Il gesto e la parola. Einaudi. Torino.
2 – Fedele F. 1981, Preistoria alpina e altro un’archeologia per la Valle Orco. Dematteis Editore, Torino.
3 – Gallo E. 2003. La Pera Cunca ed il Truchet, in TRACCE Online Rock Art Bulletin, 13. www.rupestre.net
4 – Arcà A., Fossati A., 1995, Sui sentieri dell’Arte Rupestre, Ed. CDA, Torino.
5 – G. Cavaglià, Vie romee e francigene in Canavese Ass.Mondino, Mazzè
6 – Per la precisione la scoperta si deve a mio fratello Galliano, che notò per primo le croci. Della scoperta fu fatta una segnalazione alla Sovrintendenza Archeologica di Torino alla fine del 2010 dal Gruppo Archeologico Canavesano.
7 – Gruppo Archeologico Canavesano. 2006, Antichi segni sulla roccia, mille e una coppella tra Paraj Auta e Canavese. Ivrea.
8 – Gibelli L. 2001. Incisioni rupestri alpine. F.lli Pistono Editore. Verolengo (To).
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