Gli Autori, in seguito alla disamina di studi internazionali ed alle recenti osservazioni personali sull’argomento in esame, analizzano l’importanza della zona di Finale Ligure (Provincia di Savona, Liguria Occidentale, Italia), quale crocevia di culture e commerci fra aree distanti del Mediterraneo, dell’Italia e dell’Europa Transalpina durante la Preistoria.
by A. Pirondini*, G.P. Bocca*, F. Pirondini*, C. Pirondini e C. Villa*
Il Finalese (Liguria occidentale):
i commerci e la cultura megalitica
fra Mediterraneo ed Europa continentale
nella Preistoria
* Il Finalese: Studi e Ricerche: http://ilfinalese.blogspot.it
Riassunto
Gli Autori, in seguito alla disamina di studi internazionali ed alle recenti osservazioni personali sull’argomento in esame, analizzano l’importanza della zona di Finale Ligure (Provincia di Savona, Liguria Occidentale, Italia), quale crocevia di culture e commerci fra aree distanti del Mediterraneo, dell’Italia e dell’Europa Transalpina durante la Preistoria.
Introduzione
Il Finalese rappresenta un’area unica dal punto di vista geologico, paleontologico e paletnologico. Si estende, in direzione dell’entroterra, dalla linea di costa fino al tracciato della attuale Autostrada A 10 e, lungo il litorale, da Capo Noli a Capo Caprazzoppa.
Il territorio è geologicamente caratterizzato da una formazione rocciosa miocenica di origine bioclastica, nota come Pietra del Finale, formatasi nel Miocenico (20-10 milioni di anni fa) in quella che era una laguna di acque calde e tranquille, tra Capo Noli ed il Monte Carmo di Loano. Nell’arco di alcuni milioni di anni sedimenti fluviali, sabbie, ghiaie, scheletri calcarei e molluschi si accumularono nella parte centro orientale di questo bacino, formando il calcare bioclastico della Pietra del Finale (Foto 1).
Con il ritiro del mare, rimase un ampio penepiano. La Pietra del Finale è stata poi soggetta ad intensi fenomeni carsici, sia superficiali (epigei), che sotterranei (ipogei), con la formazione di valli fossili, depositi di terre rosse, grotte e complessi ipogei ricchi di acque. Attualmente i principali corsi d’acqua del Finalese sono: il Pora, l’Aquila e lo Sciusa.
Descrizione
L’intensità dei fenomeni carsici, con la formazione di cavità naturali, ha favorito fin da epoche remote (350000 anni fa), la presenza umana.
Il ritrovamento di bifacciali da insediamenti dell’Altopiano delle Manie e della Caverna delle Fate risale, infatti, alla presenza dell’Homo Erectus. La stessa Caverna delle Fate e l’Arma (termine ligure per indicare grotta) delle Manie hanno, inoltre, restituito resti ossei dell’Homo Neanderthalensis, vissuto nel corso del Paleolitico Medio (120000-38000 anni fa).
Circa 38000 anni fa, nel Paleolitico Superiore, durante l’ultima grande glaciazione che segnò l’estinzione dei Neanderthaliani, comparve l’Homo Sapiens. Nella Caverna delle Arene Candide sono state ritrovate numerose sepolture, fra cui la più nota è quella del “Giovane Principe” (risalente a 24000 anni fa), così denominata per il ricco corredo che accompagnava questa persona prematuramente deceduta, probabilmente a causa di un evento traumatico.
Con il Neolitico (che, in Liguria si sviluppò dal 5800 al 3600 a.C.) l’uomo, da nomade cacciatore e raccoglitore, divenne allevatore ed agricoltore. Il maggiore controllo delle risorse naturali, rese l’uomo stanziale, comportò un aumento della popolazione con il contemporaneo modificarsi dell’organizzazione sociale e l’introduzione del concetto di “proprietà”. In meno di 2000 anni, la vita dell’uomo si modificò più significativamente che durante i 2 milioni di anni precedenti: un cambiamento radicale conosciuto come “Rivoluzione Neolitica”, anche se il processo di Neolitizzazione fu piuttosto graduale e differenziato per le diverse culture ed aree geografiche.
Nel Ponente Ligure, tali trasformazioni si avviarono, secondo recenti osservazioni, a causa della probabile migrazione di nuove popolazioni dall’Italia Centro-Meridionale (5), (7), (8), (15), (30), (32), (38).
I reperti archeologici ritrovati alle Arene Candide, all’Arma della Pollera e, del tutto recentemente al Riparo di Pian del Ciliegio (Altopiano delle Manie) risalgono, per lo più, al periodo della “Cultura della Ceramica Impressa” (Neolitico Antico: dal 5800 al 5000 a.C.) e della “Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata” (Neolitico Medio: dal 5000 al 4200 a.C.). Sono legati a culti e riti sviluppatisi nell’area Mediterranea, relativi alla riproduzione ed alla crescita vegetale ed animale. Il ritrovamento di statuine di fattezze femminili sembrerebbe, infatti, legato a propiziare la fertilità del terreno e delle greggi (8).
Le datazioni radiocarboniche (8), (15), eseguite a Pian del Ciliegio, per i livelli della “Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata”, risalgono al V millennio a.C. (tra il 4700 ed il 4300 circa). Indagini archeometriche (8), condotte con microscopia ottica e XRPD (X-Ray Powder Diffraction) su campioni appartenenti alle culture dei Vasi a Bocca Quadrata e della Ceramica Impressa, suggeriscono differenti fonti di materie prime e di tecniche di produzione. La natura delle inclusioni minerali indica, in tutti i casi, una produzione locale o con distanza massima di circa 10 Km. Gli impasti delle ceramiche dei Vasi a Bocca Quadrata contengono, infatti, elementi che possono essere riferiti alle rocce metamorfiche paleozoiche affioranti nella zona (con presenza di inclusioni di calcite) aventi caratteristiche tipiche di altre produzioni di ceramica neolitica provenienti da contesti di grotte studiate nella zona. Al contrario, la “ceramica impressa”, anche se è stata ritrovata in quantità più limitata, mostra una grande variabilità per quanto concerne la sua composizione e la zona di provenienza. Accanto, infatti, a diversi impasti locali (con inclusioni di rocce metamorfiche e la presenza di una quantità variabile di calcite), sono state reperite anche miscele con inclusioni ofiolitiche (provenienti, probabilmente, dalla Toscana) o vulcaniche (originarie, con ogni probabilità, dall’Italia Centro – Meridionale ed Insulare). Questi dati confermano ed integrano quelli dei vicini siti archeologici della Grotta delle Arene Candide e della Pollera: durante il Neolitico Antico c’era, presumibilmente, una circolazione via mare, a lunga distanza, di persone e merci (incluse le ceramiche). Il reperimento di un cilindro di terracotta (8), (15) con una serie (5×12) di incisioni lineari, sulla sua superficie, ortogonali fra loro, formanti 60 caselle quadrate, rappresenta un oggetto unico nel panorama del neolitico italico. Si tratta, probabilmente, di un “Token”: termine inglese che si può tradurre come “segno stampato”, “contrassegno stampato”, ma che in termini archeologici indica un sistema di registrazione numerica. Il manufatto presenta, in 8 delle 60 caselle, un punto, impresso prima della cottura e, verosimilmente, sarebbe un antichissimo sistema di numerazione. Reperti simili si trovano in aree archeologiche, di epoche contemporanee al sito in esame, situate, soprattutto, in Medio Oriente: l’oggetto sarebbe unico fra i reperti del Neolitico italiano e potrebbe dimostrare la vastità delle influenze culturali e commerciali con popoli ed aree distanti del Mediterraneo Orientale, a loro volta legate a popolazioni più lontane di quanto fino ad ora considerato (Figura 1).
Da studi recenti, basati sulla osservazione delle correnti marine del Tirreno Centro-Settentrionale, inoltre, si potrebbero tracciare rotte che, in senso antiorario, dalle coste della Campania, del Lazio e della Toscana meridionale, si dirigono verso nord–ovest toccando la Toscana centrale, la Corsica, la Liguria orientale e centrale, fino a raggiungere il Finalese, l’Albenganese e le coste Provenzali. I recenti dati su Pian del Ciliegio e sull’Arma di Nasino (sita nell’entroterra di Albenga, a 20 km dalla costa ed a circa 30 Km, in linea d’aria, dal Finalese), hanno quindi consentito di estendere, sia verso sud, sia verso ovest, rispetto al Finalese, l’itinerario già ipotizzato sulla base dei risultati emersi da precedenti studi sulle Arene Candide (5), (8). Inoltre, attraverso la navigazione si creavano legami sociali e culturali tra le popolazioni del Neolitico mediterraneo. La ceramica ed anche i beni deperibili contenuti nel vasellame in terracotta potrebbero, dunque, essere annoverati tra gli oggetti che erano veicolati via mare già dall’inizio del VII millennio a.C.
In questo periodo si sono ulteriormente sviluppati i commerci via terra. Attraverso i valichi dell’entroterra Finalese, conosciuti anche ai nostri giorni con gli attuali toponimi di Colle del Melogno, Madonna della Neve (o Giogo di Rialto), Colla di San Giacomo (collegata alla Colla di Magnone, che la metteva in comunicazione con la Val Ponci), dalle valli finalesi, uomini e merci potevano raggiungere la Val Bormida e, da qui, la Valle del Po (Figura 2).
A partire dal IV millennio a. C., l’uomo accrebbe le conoscenze riguardanti il trattamento dei minerali metalliferi (14), (16), (34), (41). In seguito allo sviluppo della metallurgia, le società si organizzarono in assetti sempre più complessi, con vere e proprie strutture gerarchiche. Furono costruite fortificazioni di altura (27), (31), note con il nome di Castellieri o Castellari (nel Finalese sono stati ben studiati quelli di Verezzi, il Castelliere delle Anime sulla Rocca di Perti, di Sant’Antonino, di Bric Reseghe, di Monte Sant’Elena a Bergeggi).
Si definirono identità etniche legate a differenti aree geografiche. Nell’Italia Nord Occidentale e nella Francia Meridionale, tra l’Età del Bronzo Medio (1600 a.C. circa) e l’inizio dell’Età del Ferro (900 a.C. circa), apparvero i caratteri di un nuovo popolo: gli antichi Liguri.
Nel territorio compreso fra lo spartiacque alpino a nord, il Po a sud, il Serio ad est e il Sesia ad ovest si sviluppò, invece, la cosiddetta Cultura di Golasecca.
Tale civiltà prende il nome dalla località di Golasecca (Provincia di Varese, sulle rive del fiume Ticino), dove, all’inizio del XIX secolo, l’abate Giovanni Battista Giani effettuò i primi ritrovamenti che ritenne testimonianze della battaglia avvenuta, durante la seconda guerra punica, tra Annibale e Scipione, tesi già sostenuta precedentemente da Carlo Amoretti, erudito viaggiatore settecentesco. È, però, nel 1865 che Gabriel De Mortillet attribuisce tali reperti ad una civiltà autonoma preromana (17).
I Celti a cui, probabilmente, si deve l’origine di tale cultura erano popolazioni di ceppo indoeuropeo. Giunsero in Europa in varie ondate, provenienti dall’Asia centrale, fra il 3500 e il 1500 a.C., attraverso il Caucaso e il Medio Oriente. Le zone europee in cui si svilupparono i primi segni della cultura celtica furono, appunto, l’area di Golasecca nel XII-X secolo a.C., l’area mineraria di Hallstatt (in Alta Austria) dove diedero vita a una cultura particolare sviluppatasi intorno all’VIII secolo a.C. e, infine, il sito di La Tène (Svizzera), dove raggiunsero la massima espressione artistica, sociale e spirituale nel VI-V secolo a.C. (24).
Si diffusero, inoltre, nell’intero territorio austriaco e svizzero, nella Germania sud-orientale, in Francia, Belgio, Italia settentrionale, in parte dell’Europa centro-orientale, Spagna settentrionale, Balcani, Isole Britanniche, Irlanda e nell’area centrale della penisola Anatolica. Per quanto riguarda l’area Golasecchiana, si può presumere che la struttura sociale adottata fosse articolata gerarchicamente e che la popolazione fosse divisa in villaggi situati nei pressi delle necropoli ritrovate. Era praticata l’agricoltura, la tessitura e l’allevamento che permetteva di produrre carne e formaggio. L’ampia circolazione di manufatti golasecchiani a nord delle Alpi è in stretto rapporto con l’espandersi e l’aumentare del volume dei commerci dell’Etruria Padana.
Gli insediamenti golasecchiani erano di grande importanza strategica, dato che si trovavano lungo itinerari che permettevano di raggiungere i passi del San Bernardino, San Gottardo e Sempione.
Dal ritrovamento di vari suppellettili si deduce che i Golasecchiani commerciavano non solo con i Liguri, ma anche con Etruschi, Greci, con i popoli dell’Italia Centro Meridionale ed insulare, fungendo anche da intermediari (40) con i Celti del nord (Culture di Hallstatt e di La Tène). La rete di scambi comprendeva la Cornovaglia, la Bretagna e la Galizia, regioni da cui proveniva lo stagno necessario alla produzione del bronzo. Dalle regioni Baltiche proveniva, invece, l’ambra (24).
Il reperimento alle Arene Candide di Ossidiana proveniente dall’Italia centro-meridionale ed insulare, attesta ulteriormente l’importanza del Finalese come zona di transito e di utilizzo di tale minerale già dal Neolitico (2).
Il commercio con la Grecia, l’Italia centro meridionale ed insulare a partenza, con ogni probabilità, dalla colonia greca di Massalia (l’attuale Marsiglia), che attraversava il Finalese (5) ed i più agevoli valichi delle Alpi Liguri e degli Appennini per la Val Bormida, la Val Scrivia e la Val Trebbia, è confermato dal ritrovamento di vasi in ceramica a figure nere di stile Attico nelle tombe delle fasi più recenti della civiltà di Golasecca (19), (20).
I manufatti in argilla erano ottenuti tramite l’utilizzo del tornio “primitivo”, oppure modellati a mano (19), (20), gli oggetti di metallo erano invece realizzati per fusione o laminatura da materie prime estratte localmente e/o importate (3), (14), (16), (34).
Analogamente, fra il 1550 ed il 1450 a.C., durante l’Età del Bronzo Medio, fiorì nel Piemonte settentrionale, tra Ivrea e Biella, la cosiddetta Cultura di Viverone.
Le analisi archeometriche condotte su reperti bronzei hanno permesso di concludere che tali materiali siano frutto di scambi attraverso il Passo del Gran San Bernardo con popolazioni transalpine.
Tali commerci, similmente a quelli intercorsi con l’area golasecchiana, hanno intensificato i rapporti fra Europa Centrale e Mediterraneo (19).
Durante l’Età del Ferro, con l’affermarsi della Cultura di La Tène, si poté assistere ad una progressiva “Celtizzazione” di tutta l’Italia Nord Occidentale, Liguria compresa (40).
Il reperimento di fibule bronzee ed in ferro in quest’area, oltre le raffigurazioni di spade “antenniformi” (tipo Hallstatt e La Tène) su statue-stele non può più stupire, considerando gli intensi rapporti commerciali e culturali che il mondo Ligure intrattenne sempre con l’area celtico-golasecchiana e con quella transalpina (40).
Dalla fine del quinto millennio, alla fine del terzo millennio a.C. (periodo che comprende il Neolitico e l’Età del Bronzo), si manifestò una civiltà legata al culto della pietra.
Vennero erette costruzioni megalitiche come Menhir semplici ed allineati, Dolmen, Cromlech (recinti megalitici), spesso vicine a rocce incise, considerati contemporanee ai megaliti limitrofi.
Il significato di tale prossimità potrebbe essere spiegato come un segno della presenza del “sacro” (22), (23).
Le raffigurazioni di “oranti” avvalorerebbero, inoltre, questa ipotesi. Coppelle e canalette potrebbero, invece, essere state utilizzate come contenitori e collettori di liquidi (organici e/o meteorici) a scopi rituali (9), (10), (11), (12), (13).
I “cruciformi” incisi su queste pietre sarebbero, invece segni di Cristianizzazione e, quindi, potrebbero essere considerati di epoca meno remota. Ciò indicherebbe una frequentazione di questi siti in periodo romano, medievale e, forse anche più recente, con finalità anche differenti da quelle originali (caccia, allevamento di animali).
Con l’Età del Ferro (che in Liguria si sviluppò fra il 900 ed il 180 a.C.) fecero la loro comparsa le statue-stele (o stele antropomorfe): pietre fitte con incisioni, tipiche della Lunigiana. Attualmente, l’unico esempio di tale manufatto ritrovato nel Finalese è rappresentato dalla rudimentale stele antropomorfa di Pila delle Penne (Foto 2).
Nella zona di Finale Ligure sono presenti strutture orientate astronomicamente: “Osservatorio” di Bric Pianarella (con annessa “casella”), Menhir e Dolmen di Verezzi, Dolmen di Monticello, Rocce Altare e Tavole in Pietra di Finale presenti sui maggiori rilievi della zona (Altari di Monte Cucco, di Bric Pianarella, della Rocca degli Uccelli, del Bric del Frate, dell’Arma Strapatente, del Bric di Sant’Antonino).
Tutte queste strutture megalitiche, come precedentemente riportato, sono in stretta vicinanza con rocce incise ampiamente conosciute come il Ciappu de Cunche (o Ciappo delle Conche: il termine “ciappo”, nel Finalese, indica una lastra di pietra), il Ciappu de Cunchette (Ciappo dei Ceci), il Ciappu du Sà (Ciappo del Sale), il Ciappo Pianarella (Foto 3), il Ciappo della Valle dei Frassini (per citare solo quelli più noti) con presenza di incisioni di oranti, croci, coppelle e canalette.
La datazione dei reperti descritti costituisce un problema di difficile soluzione, in quanto i petroglifi si trovano in un luogo “aperto”, facilmente modificabile da fattori meteorici ed umani.
La presenza di altre strutture simili in area Europea è, comunque, ben conosciuta.
Ricordiamo, infatti, quanto riportato in numerosi studi che fanno riferimento al santuario di Panoias, (Portogallo settentrionale). Qui, accanto ad una grande roccia con vasche, canali e coppelle, scalini scavati nella roccia, vi è la seguente iscrizione latina risalente al III sec. d.C. (13):
“HUIUS HOSTIAE QUAE CADUNT HIC IMM(ol)ANTUR EXTRA INTRA QUADRATA CONTRA CREMANTUR – SAN(gu)IS LAC(i)CULIS (iuxta) SUPERFU(ndi)TUR”
(traducibile con: “Qui sono consacrate agli dei le vittime che vi vengono abbattute: le loro interiora vengono bruciate nelle vasche quadrate e il loro sangue si diffonde nelle piccole vasche circostanti”).
I grandi affioramenti rocciosi, con caratteristiche simili a quelle descritte per il santuario di Panoias, presenti nel Finalese, potrebbero, almeno per un certo periodo, avere avuto una funzione analoga. Il fatto, inoltre, che le “pietre-altare” siano costruite su luoghi elevati indica, probabilmente, la volontà di scegliere un sito appropriato dal quale si potesse avere una sorta di controllo visivo del territorio sottostante, in rapporto anche alla sacralità delle postazioni di altura e delle cime montane, tipica delle popolazioni celto-liguri (29).
Dolmen e Menhir non sono, quindi, estranei all’area culturale del Finalese (39) e subalpina (35) come si pensava fino a poche decine di anni addietro.
Si riteneva, infatti, che la cultura megalitica si fosse arrestata nella regione transalpina, senza oltrepassare le Alpi. Unica eccezione era l’area pugliese, i cui dolmen, pietre-fitte e specchie erano però attribuiti all’influsso di popolazioni provenienti dalla penisola balcanica, attraverso l’Adriatico, in quanto, nel restante bacino del Mediterraneo, il megalitismo è ben rappresentato. Il lavoro di Puglisi “La Civiltà Appenninica. Origine delle comunità pastorali in Italia ” (36) alla fine degli anni ’50 del secolo scorso e la scoperta, negli anni ’60, della necropoli megalitica di Saint Martin de Corléan, ad Aosta, dimostrarono l’infondatezza di questa tesi (6), (9), (10), (11), (12).
Del tutto recentemente (35) sono stati descritti reperti di possibile interesse megalitico anche in Val Ceresio, come menhir, dolmen, strade megalitiche, incisioni rupestri (foto 4).
La zona interessata dalle ricerche è poco conosciuta dal punto di vista archeologico, pur facendo parte dell’area golasecchiana. Con le dovute cautele, la datazione di tali reperti può essere fatta risalire al Neolitico ed all’Età del Bronzo, ad opera di popoli pre e/o protoceltici.
Ulteriori esplorazioni potrebbero evidenziare altri manufatti ad oggi sconosciuti.
La valutazione dei siti descritti con le recenti tecniche che si avvalgono del GPR (acronimo per Ground Penetrating Radar, detto anche Georadar), che usa le onde radio per definire le strutture e la stratificazione del terreno, in grado persino di costruire immagini tridimensionali, dell’ERS (Electrical Resistance Survey, o Rilevamento Geoelettrico), che misura la resistenza dei diversi strati del terreno alla corrente elettrica (i resti archeologici possono, infatti, avere una resistenza inferiore o superiore rispetto al terreno intorno a loro ed essere così evidenziati), del Magnetometro Differenziale (o Gradiometro), che utilizza sensori magnetici (magnetometri) per rilevare proprietà magnetiche significativamente diverse da quelle del terreno circostante (possono essere individuate con maggiore facilità formazioni archeologiche come pozzi, tombe, depositi di materiali, strade, fossati, muri), potrebbero evidenziare ulteriori reperti interrati, con la possibilità di poterli studiare in modo più approfondito, ancor prima di eseguire scavi.
Una ulteriore tecnica utilizzabile è rappresentata dal Metal Detector: uno strumento che usa l’induzione elettromagnetica per rivelare la presenza di metalli.
Risultati estremamente promettenti sono ottenuti anche con il LiDAR (Light Detection and Ranging o Laser Imaging Detection and Ranging), che può ricavare dati con la scansione laser delle zone boscose, dalle quali si può rimuovere, in digitale, la vegetazione.
Recenti studi, basati sulle nuove metodiche di ICP/OES o AAS (acronimi per Induced Coupled Plasma/Optical Emission Spectroscopy o Atomic Absorption Spectroscopy) hanno dimostrato che la metallurgia era ampiamente conosciuta, nell’area oggetto del presente studio, già nella Media Età del Bronzo (1600-1350 a.C.) e che l’attività estrattiva era praticata anche in località minerarie della Valle stessa (14), (15), (16), (20), (24).
La Val Ceresio sarebbe stata, quindi, fin dall’Età del Bronzo, parte di vie di scambio dei metalli fra il Mediterraneo, la Val Padana e l’Europa Transalpina (20).
Discussione
La cultura megalitica è penetrata, dunque, anche in Italia nord-occidentale, presumibilmente attraverso i passi alpini del Gran San Bernardo, del Sempione, del San Gottardo e del San Bernardino, verso la Valle del Po. Da qui e dalla Provenza, anche via mare, in Liguria dove, nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, sono stati identificati a Nord di Sanremo (Provincia di Imperia) due tumuli sepolcrali circolari. Uno di questi, studiato con metodi stratigrafici dalla locale sezione dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, ha potuto essere attribuito alla fase finale dell’Età del Bronzo (1).
Di conseguenza, anche altri manufatti presenti in Liguria, soprattutto nella zona del Finalese (25), (26), (27), (28), (29), (30), (31), (32), (33) come il Menhir ed il Dolmen di Verezzi, fino ad allora attribuiti, pur con riserve, alla civiltà contadina recente, hanno assunto un significato diverso e la scarsità di reperti megalitici in Italia, differentemente dalle regioni transalpine (specie nord-occidentali ed insulari), potrebbe spiegarsi con il maggiore avvicendamento di civiltà nel corso del tempo, fatto che avrebbe trasformato radicalmente l’aspetto del territorio, comportando la perdita di molti di questi artefatti (9), (10), (11), (12), (21), (37).
Conclusioni
La presenza di Megaliti, può essere dunque considerata come un marcatore dei legami esistenti, già dal Neolitico, fra Mediterraneo, Italia Nord Occidentale ed Europa Transalpina. In questa prospettiva, la Liguria e, soprattutto, il Finalese (grazie alle peculiarità geologiche, paleontologiche e paletnologiche descritte), possono rappresentare un crocevia per tali scambi commerciali e culturali, già ampiamente documentati per le successive epoche preistoriche e protostoriche.
La diffusione delle Culture della Ceramica Impressa e dei Vasi a Bocca Quadrata nell’Italia Settentrionale e nella restante Europa continentale, pur con diverse modalità applicative, potrebbe dimostrare gli attivi scambi commerciali e culturali fra le aree geografico-culturali esaminate nel presente lavoro. Ad ulteriore convalida, il ritrovamento del “Token” di Pian del Ciliegio che proverebbe rapporti culturali e commerciali, fin dal Neolitico Antico, con regioni Mediorientali, quali la Fenicia e la Mesopotamia.
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